Il Professor Massimo Puoti, medico chirurgo infettivologo e gastroenterologo, è stato nominato nel 2008 European Expert presso l’EMA. Dopo aver insegnato e ricoperto vari incarichi a Brescia, dal 2010 dirige il reparto Malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano e quotidianamente, da ormai più di anno, si confronta con gli effetti del Coronavirus.
Professor Massimo Puoti, qual è la situazione tra varianti e contagi?
La variante inglese che ha maggiore contagiosità e determina un decorso peggiore della malattia rappresenta più dell’80% dei casi in Italia. Le altre varianti hanno percentuali inferiori intorno al 5/4%, con alcune differenze a seconda della regione. Poi abbiamo casi più gravi in soggetti più giovani della media rispetto alle ondate precedenti, ed è questo che determina il sovraccarico delle terapie intensive, ma il numero di contagi sta generalmente diminuendo. In Lombardia si riscontra un’incidenza più alta delle infezioni nelle province di Brescia e Mantova, mentre il resto della regione sta assistendo a una decrescita dei contagi.
L’arrivo delle varianti ha imposto un cambio di strategia nel curare i pazienti?
Già avevamo indicazioni discordanti sull’utilizzo del cortisone nelle terapie domiciliari, adesso alcuni studi sconsigliano la somministrazione di questo farmaco per curare la variante inglese dato che presenta una maggiore carica virale.
Gli ultimi metodi di cura
Si parla tanto di anticorpi monoclonali…
Per i monoclonali servono tre cose. Rapidità: per legge si devono somministrare entro 10 giorni dall’inizio dei sintomi, ma l’ideale è stare nei 5. Previdenza: vanno privilegiate le categorie a rischio indicate dall’Aifa. Precisione: bisogna somministrare al paziente il monoclonale specifico per quella variante.
Quindi non tutti i monoclonali sono uguali.
Ad oggi abbiamo tre tipi di anticorpi monoclonali a disposizione: tutti utilizzabili contro la variante inglese, ma due di questi non sembrano allo stesso modo efficaci nel curare la brasiliana e la sudafricana. Allora stiamo agendo su due fronti: da un lato applichiamo l’unico efficace contro tutti i ceppi del virus, dall’altro stiamo sperimentando in laboratorio metodi che consentano l’individuazione della variante in sole 24 ore così da ottimizzare l’utilizzo di tutti i tipi di monoclonali.
La vicenda Astra-Zeneca
Come interpreta la valutazione dell’EMA secondo cui nell’utilizzo del vaccino Astra-Zeneca i benefici superano i rischi?
È molto semplice. La probabilità di essere vittima di trombosi per infezione da Covid19 è infinitamente più alta di avere una trombosi in seguito al vaccino. Questo fenomeno rarissimo viene studiato ovviamente e si comincia a capirne il “meccanismo biologico” legato ad un’improvvisa caduta delle piastrine, un fenomeno molto particolare, la cui incidenza però è nell’ordine di poche decine su decine di milioni di vaccinazioni. Si tenga conto che nei pazienti ricoverati per Covid19 l’incidenza è almeno decine di migliaia, se non centomila volte più alta. Diversi tra i soggetti ricoverati muoiono per embolie polmonari e trombosi, abbiamo avuto modo di vedere pazienti con trombosi alle arterie delle gambe che hanno dovuto subire l’amputazione.
Tuttavia abbiamo sentito indicazioni discordanti, adesso si raccomanda la somministrazione del vaccino Astra–Zeneca solo a chi ha più di sessant’anni.
Le nuove indicazioni sono dovute al fatto che si tratta di un fenomeno mediatico, per cui tutti hanno paura di sbagliare, e talvolta, le autorità regolatorie sfuggono alle responsabilità con azioni piratesche.
Questione di merito
Dunque, meglio gli inglesi…
In Inghilterra hanno deciso di fare una dose a tutti e di rimandare la seconda dopo i tre mesi, contravvenendo alle indicazioni del foglietto illustrativo. Hanno attuato una campagna massiva di vaccinazione per età, non per altre caratteristiche. Ad esempio in Inghilterra non credo che abbiano vaccinato i professori universitari prima degli altri. Adesso hanno un numero di morti al giorno cinque o sette volte inferiore a quello dell’Italia. Hanno anche gestito l’acquisto dei vaccini in maniera diversa dalla nostra e li hanno approvati più tempestivamente. In Inghilterra e nei paesi anglosassoni il merito ha cittadinanza molto ampia. In Italia, dove i ruoli decisionali sono affidati per scelte politiche e non di merito, paghiamo questo meccanismo poco virtuoso in termini di maggiore mortalità. Come diceva il sottosegretario alla salute Pierpaolo Sileri, non è il criterio del merito ad influire sulle scelte politiche. Bene, questa è la dimostrazione che invece il merito serve.
Quando ne usciremo
Quali sono le prospettive per la campagna vaccinale?
Chiaramente gli ostacoli ci sono, ad esempio alcuni vaccini vengono prodotti in quantità inferiori di quelle attese, ma nonostante le discontinuità, se si rispettasse il programma prospettato, sicuramente tra fine giugno e inizio luglio vivremo una situazione decisamente migliore. La vera battaglia ora è sui vaccini. Abbiamo cure monoclonali e avremo anche antivirali ma prima che giungano a disposizione di tutta la popolazione passeranno diversi mesi.
Si corre il rischio che una volta terminata la campagna i soggetti vaccinati per primi abbiano perso nuovamente l’immunità?
Non c’è alcuna indicazione in tal senso, sinceramente è un’ipotesi molto poco probabile. I trial clinici a cui viene sottoposto chi è stato vaccinato per primo ci dicono che dopo mesi la risposta al virus è ancora protettiva. Il vaccino sicuramente riduce sia ospedalizzazioni che mortalità, inoltre, dai dati provenienti da Israele possiamo affermare la capacità del siero di ridurre l’infettività e i contagi.
E il rischio di dover ripetere ogni anno questa campagna vaccinale di massa?
Personalmente penso che non ci sarà la necessità di una vaccinazione di massa ogni anno. Dipenderà anche dalla diffusione di nuove varianti e dalla capacità che svilupperà il virus per sfuggire dal vaccino.
Al momento non stiamo assistendo a questo: la brasiliana e la sudafricana sembrano non poter vincere l’immunità dei vaccini Mrna che abbiamo impiegato negli operatori sanitari.