«All’alcol! La causa di e la soluzione a tutti problemi della vita». Questo il tanto goliardico quanto realista brindisi che Homer Simpson lancia, rigorosamente con boccale di birra Duff in mano, in un episodio dell’omonimo cartone animato. Parole che forse il più famoso ubriacone di Springfield non avrebbe pronunciato se Matt Groening avesse creato I Simpsons dopo il 1995, quando è stato approvato l’uso del naltrexone come terapia per combattere l’alcolismo, in associazione a un trattamento che comprendesse anche un aiuto di tipo psicologico e sociale.
Con gli anni, diversi studi sono stati fatti su questo medicinale e tutti sono stati concordi nell’affermare che la sua somministrazione porta i pazienti a ridurre il consumo di alcol e il desiderio di bere. La ricerca, apparsa sull’American Journal of Psychiatry nel dicembre 2022, va comunque a colmare una lacuna della letteratura scientifica sull’argomento. Finora, il naltrexone era riservato ai pazienti con un disturbo grave da uso di alcol, mentre in questo caso è stato testato sui bevitori con dipendenze lievi o moderate (che, secondo lo studio, costituiscono circa il 90% del totale). Inoltre, i ricercatori si sono occupati della forma di somministrazione del farmaco chiamata targeted, ossia al bisogno. Una modalità usata più raramente rispetto all’assunzione giornaliera di una o due compresse o all’iniezione mensile da fare in una clinica.
Il naltrexone: come funziona e quali risultati ha dato nello studio
In origine, il naltrexone era usato come antagonista degli oppiacei, in particolare morfina ed eroina, per aiutare chi ne era dipendente a smettere di utilizzarli. Nel nostro corpo infatti, va ad agire sui recettori di queste sostanze, che sono quelle che stimolano la produzione endorfine, le quali, a loro volta, danno la sensazione di benessere. L’alcol agisce sugli stessi recettori degli oppiacei. Poiché questi ultimi sono bloccati dal naltrexone, l’utilizzo del farmaco è stato man mano esteso anche al trattamento della dipendenza da alcol.
Nello studio, i partecipanti sono stati divisi in maniera casuale in due gruppi composti dallo stesso numero di persone. Per 12 settimane, a tutti è stato chiesto di prendere una pillola quando percepivano un forte desiderio di assumere alcolici e/o quando sentivano aumentare il rischio di un loro consumo smodato (come nel caso di un’abbuffata alcolica, anche detta binge drinking). A uno dei due gruppi è stato somministrato il naltrexone, all’altro un placebo. Con consulti periodici, i pazienti sono stati seguiti dai ricercatori e psicologi fino a sei mesi dopo la fine della sperimentazione.
I soggetti presi in esame erano 120 uomini gay o transgender, età media 37 anni, con dipendenze da alcol lievi o moderate. Poco più di un quarto era positivo all’HIV. La scelta di concentrarsi su queste categorie muove dal fatto che, negli Stati Uniti, il binge drinking è più comune tra chi è affetto da HIV e uomini gay e transgender rappresentano più della metà delle nuove infezioni di questo virus. Poiché l’abuso di alcol è associato a comportamenti sessuali a rischio, i ricercatori hanno pensato che trovare un modo efficace per ridurre le abbuffate alcoliche potesse aiutare anche a prevenire infezioni da HIV.
Sebbene i risultati non abbiano evidenziato cambiamenti importanti tra i due gruppi per quanto riguarda i comportamenti sessuali a rischio, hanno però mostrato che «l’uso mirato del naltrexone è associato a riduzioni significative del numero di giorni in cui avvengono abbuffate alcoliche, della frequenza di queste ultime in una settimana, del numero di cocktail alcolici consumati, dell’intensità del desiderio di alcol» , con effetti positivi anche per i sei mesi successivi al trattamento. Da qui, gli studiosi hanno potuto affermare che l’uso del naltrexone «può essere un valido approccio terapeutico per aiutare tutti quei bevitori con dipendenze lievi o moderate da alcol, che costituiscono la maggior parte di coloro che ricorrono al binge drinking».
Un mondo in cambiamento: rispetto al consumo di alcol, l’Italia è in controtendenza rispetto agli altri Paesi
La ricerca capita in un momento di grandi cambiamenti nel mondo delle bevande alcoliche e nel modo in cui la popolazione si rapporta con esse.
Restando in ambito internazionale, nell’articolo “La fine dell’alcol”, apparso nel numero di dicembre 2022 di Wired, Virginia Heffernan ha citato uno studio dell’istituto per le ricerche statistiche americano Gallup, che evidenzia come tra il 2019 e il 2021, negli Stati Uniti, la percentuale di americani che beveva alcolici è scesa dal 65 al 60 per cento, così come, nello stesso arco di tempo, sono diminuiti il numero di cocktail alcolici consumati a settimana, da 4 a 3,6. Una tendenza che ha portato il mercato ad adeguarsi: sono comparsi bar dove non si vendono alcolici; alcuni vip hanno lanciato le loro bevande analcoliche; altri sono diventati influencer che promuovono stili di vita alcol free.
Passando dalla nostra parte dell’oceano, in diversi Paesi è diffusa da anni la tendenza nei giovani a consumare meno alcol. Nel Regno Unito, tra 2002 e 2019, la percentuale di giovani tra i 16 e i 24 anni che dichiarava di bere almeno una volta al mese è caduta dal 67 al 41 per cento. In questo caso, è stata la ricerca scientifica a cavalcare l’onda. David Nutt, neurofarmacologo dell’Imperial College, ha inventato Alcarelle, una sostanza che mima gli effetti positivi dell’etanolo sull’umore, ma non quelli negativi dei postumi; ha poi lanciato sul mercato Sentia, una bevanda di origine vegetale presentata come “la terza via”: un prodotto «che non contiene alcol, che non è alcol free, ma che dà le stesse sensazioni positive del consumo di alcolici».
In Italia la situazione è diversa. In termini assoluti, come dichiarato dal Prof. Emanuele Scafato, direttore dell’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, «abbiamo all’incirca 8 milioni e 600 mila consumatori a rischio (ossia coloro che superano i limiti di consumo di alcol imposti dalle linee nutrizionali: un bicchiere al giorno per donne e over 65, due per gli uomini, zero fino a 18 anni) e 700 mila consumatori dannosi (che assumono più di 4-5 bicchieri al giorno)». Inoltre, tra 2010 e 2020, la percentuale di persone che consumava alcol in modo abituale è generalmente aumentata, arrivando a picchi del 55,2% nella fascia 25-44 anni e del 53,6% tra i 18-24enni. Un intervallo quest’ultimo che secondo il professore presenta la situazione più preoccupante, poiché «circa un ragazzo su quattro e il 7% delle ragazze beve per ubriacarsi». Un problema che però è diffuso anche tra i più piccoli. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche ha condotto uno studio Espad , un progetto a livello europeo che ogni quattro anni monitora il consumo di sostanze come alcol e droga da parte di studenti e studentesse di medie e superiori, dal quale è emerso che un ragazzo su tre pratica binge drinking e, tra questi, che uno su quattro ha meno di 17 anni.
Come vengono trattate le devianze da uso dell’alcol in Italia
Il fatto che in Italia l’abuso di sostanze alcoliche sia piuttosto diffuso tra i giovani non vuol dire che questi abbiano una dipendenza. Come sottolineato dalla Dott.ssa Monia Aloise, medico d’urgenza all’Istituto Humanitas e specialista in Tossicologia Clinica, in questi casi spesso c’è un problema sociale diverso: «L’alcolista classico è il/la paziente che beve quotidianamente un quantitativo di alcol smodato. I ragazzi invece hanno un consumo molto diverso, che spesso si concentra nei fine settimana, quando cercano l’abbuffata alcolica per raggiungere lo sballo in poco tempo». L’insorgere di dipendenze da alcol nei giovani può accadere, ha detto la dottoressa, in presenza di un consumo eccessivo di questa sostanza, perché il corpo piano piano diventa assuefatto, ma la causa principale più spesso è da ricercare nella storia dei soggetti. Problemi di tipo emotivo, fragilità, genitori con altre dipendenze, difficoltà sociali possono infatti essere il vero motivo dell’insorgere di un disordine nell’uso di alcolici.
La cifra “personale” delle dipendenze comporta che anche i trattamenti debbano essere modellati sulla persona. «La terapia farmacologica non è mai da sola – continua la dottoressa – anche perché non sarebbe sufficiente. Bisogna prendere il paziente a tutto tondo». In Italia sono quattro i farmaci utilizzati per l’abuso di alcol: il disulfiram, il sodio oxibato, l’acamprosato e il naltrexone; ognuno dei quali agisce in maniera diversa nel corpo umano. Al loro utilizzo vengono sempre affiancati incontri con lo psicologo e lo psichiatra, per capire le basi reali della dipendenza, e, se necessario, quattro settimane di ricovero, durante le quali, oltre a una terapia che mira a ridurre l’assuefazione da alcol, viene intrapreso un percorso, con momenti di gruppo e di condivisione, che porta al riconoscimento della dipendenza e all’identificazione di accorgimenti per cercare di uscirne. Inoltre, quando possibile, vengono coinvolti anche i familiari dei pazienti o le persone che vivono con essi.
Rimane però un problema simile a quello a cui i ricercatori dello studio pubblicato sull’American Journal of Psychiatry hanno cercato di dare risposta: in Italia, le persone con dipendenza da alcol che vengono trattate dal sistema sanitario nazionale sono pochissime. Nel 2022, anche a causa della pandemia che ha colto impreparato il settore, sono state 67.000, circa il 7% del totale.
Ciò tuttavia sembra non essere sufficiente a giustificare l’utilizzo del naltrexone per contrastare il binge drinking. La dottoressa Aloise evidenzia una criticità nella modalità di somministrazione: «Se non viene fatta cronicamente, la terapia del farmaco ha poco effetto. Non è una pastiglia che i ragazzi possono prendere il venerdì per evitare di bere il sabato e la domenica». Mentre il prof. Scafato sottolinea che l’utilizzo del naltrexone è previsto solo in associazione a un intervento psicologico e ogni uso in senso diverso «è privo di qualsiasi autorizzazione da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco».
Un problema complesso non risolvibile con scorciatoie
In un altro episodio de I Simpsons, rivolgendosi alla moglie, Homer fa una riflessione dolce-amara per giustificare tutti i pasticci che combina: «Non so cosa dirti Marge, io non penso alle cose. Rispetto le persone che lo fanno, ma io cerco solo che il giorno non mi faccia troppo male, finché non mi imbacucco nel letto accanto a te». Matt Groening forse aveva focalizzato in maniera molto realistica il problema. Homer non beve tanto per il piacere di farlo, quanto per anestetizzarsi da un mondo che lui ritiene essere troppo duro nei suoi confronti. Di conseguenza, un farmaco probabilmente non sarebbe stato sufficiente a farlo smettere di bere se non fossero cambiate le cose attorno a lui.
Il naltrexone rappresenta sicuramente un aiuto per chi ha dipendenze da alcol. Tuttavia, da solo può fare poco, perché, in fondo, come dice la dottoressa Aloise, «non è solo chimica. In quel caso sarebbe tutto più facile».