Oggi associata a distruzione e assedio, Gaza ha in realtà una storia che precede e spiega il suo presente: una città millenaria, crocevia di popoli, luogo di resistenza e di normalità quotidiana. Lo storico Arturo Marzano con Storia di Gaza. Terra, politica, conflitti, ha provato a restituire la profondità, intrecciando la lettura di documenti, testimonianze e interpretazioni.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
Sentivo il dovere morale di raccontare le storie delle vittime palestinesi. Volevo restituire la loro dignità, soprattutto ai 20 mila bambini uccisi dalla guerra, che mi sembra doveroso ricordare. Delle vittime israeliane si conoscono i nomi e le storie, di ognuna di loro. Invece, si tende a parlare dei palestinesi come se fossero una cosa unica, un corpo collettivo. Ecco, per me era importante che tornassero a essere singoli individui. In generale, mi è sembrato doveroso prendere una posizione, nonostante la difficoltà di utilizzare il termine genocidio. Una parola che va presa con le pinze e rispettata. Io nel mio piccolo volevo dare un contributo in chiave civica oltre che morale e storica. E se un giorno i miei figli mi diranno: “tu cos’hai fatto?” io risponderò: “questo”.
Come è riuscito ad approfondire la storia dall’ottocento a oggi in circa 500 pagine?

Tralasciando il primo capitolo, che è introduttivo e inizia dalla nascita di Gaza, ho deciso di raccontare le altre parti della storia del popolo palestinese, dividendole in blocchi da 20-30 anni. Sono partito dal mandato britannico (1922-1948), che è un momento chiave per comprendere come il sottodistretto di Gaza si è comportato in termini di politica, società e cultura. Poi, mi sono concentrato sulla narrazione del 1948 (anno in cui è avvenuta la Nakba, ndr.) e tutto il ventennio successivo, fino al 1967, quando è avvenuta l’occupazione militare egiziana. A seguire, ho spiegato cos’è accaduto con la prima intifada del 1987, un passaggio essenziale per capire gli accordi di Oslo. Nel settimo capitolo, infine, ho parlato degli anni di governo di Hamas, dal 2007 fino al 2022. Fino ad arrivare alla storia più recente, con il 7 ottobre 2023.
Quali fonti ha privilegiato?
Principalmente fonti secondarie, come la storiografia israeliana, palestinese e internazionale, e alcune fonti primarie. Per esempio: la stampa israeliana e palestinese; i documenti politici e diplomatici; gli scambi tra il governo americano e l’ambasciata americana in Israele; e le relazioni non governative. Sono stati fondamentali anche i resoconti che le Nazioni Unite fanno della Striscia di Gaza, della presenza israeliana, della repressione e della violenza che circola fino ai giorni nostri. Infine, mi sono stati molto utili anche i rapporti delle associazioni e delle organizzazioni non governative israeliane e palestinesi.
Quanto difficile è storicizzare un tema così pieno di dolore?
È complicato per la dimensione affettiva. Ho vissuto vari anni tra Israele e Palestina, sono terre che amo profondamente. Spesso dico che mi piacerebbe fare il possibile per salvare gli israeliani e i palestinesi, permettere loro di prosperare e coabitare. Scrivere queste parole è stato pesante e doloroso, soprattutto durante i 24-25 mesi di guerra. L’elemento importante è che la storia permette di distaccarsi dal presente, perché si costruiscono vicende in cui c’è uno spazio temporale. Anche se, allo stesso tempo, la conoscenza della storia ti avvicina all’attualità. Ti aiuta a capire il motivo per cui le vicende contemporanee si stanno verificando con quelle dinamiche e con quelle caratteristiche. Soprattutto in questo specifico contesto e non in un altro.
Perché, secondo lei, Gaza è così a lungo semplificata nella navigazione mediatica occidentale?
I media tendono a semplificare la guerra per far passare un messaggio più chiaro: il problema è che semplificando troppo si rende tutto molto più confuso. La Striscia di Gaza è difficile da spiegare, perché è un territorio abitato da: profughi, residenti, uomini, donne, borghesia e classi meno abbienti. Ma anche da diversi partiti politici, dalla sinistra Fatah e da Hamas, che emerge negli anni ‘90, dopo un lungo percorso preparatorio. Questa complessità va restituita. Il problema è che semplificando troppo si schiaccia tutto e si finisce su un errore drammatico, ovvero, identificare i palestinesi con Hamas. E Gaza con Hamas, mentre non è così. Esiste una pluralità di attori che si muove a Gaza e che la rendono un unico cosimo come tanti altri.
Qual è la più grande incomprensione che il pubblico ha riguardo al ruolo di Hamas nella storia di Gaza?
L’idea che Hamas sia soltanto terrorismo. In realtà è molto più complesso: Hamas fa anche terrorismo, ma è nato in qualità di attore sociale. Infatti, nella fase preparatoria alla sua nascita, negli anni ‘70, era attivo da un punto di vista sociale. Per una popolazione numerosa è fondamentale avere i servizi sanitari di base, come cliniche per partorire, ospedali, asili e centri ricreativi. Hamas ha anche un ruolo politico importante come un partito di opposizione alternativo a Fatah, nel quale i palestinesi avevano smesso di credere. Poi, ovviamente, ha un ruolo di resistenza e di terrorismo. Anche se, quando nel 2003 l’Unione Europea definì Hamas terroristica anche sotto l’aspetto politico, commise un errore: schiacciare tutto sotto l’etichetta di “terrorismo”, mentre Hamas aveva e ha in realtà tuttora nonostante quanto sta accadendo un protettorato al suo interno.
Con il nuovo piano proposto da Donald Trump, quanto potrà rimanere della “vecchia” Palestina, evitando che si trasformi in un altro Stato sotto il potere degli Stati Uniti?
Già se nascesse uno Stato sarei contento. Ma il piano di pace di Trump è problematico per tante ragioni. Una su tutte il rischio di prendere in considerazione soltanto all’elemento umanitario, tornando a un modello simile a quello degli anni ‘50 e ‘60. Quindi, prima che ci si rendesse conto di quanto fosse necessario dare una risposta politica e far valere il diritto di autodeterminazione. Ovviamente, è importante aiutare i palestinesi, ma il rischio è di farlo senza prevedere un percorso verso la statualità. Perché Donald Trump con il suo piano mette una serie di paletti, che sono molto pericolosi. Infatti, si passa dal controllo americano, israeliano e dei vari tecnocrati, continuando a rimandare la questione chiave. Ovvero che l’unica chance per risolvere il conflitto è quella di avere la sola sovranità palestinese su una determinata parte del territorio.