
“Mankind”? No grazie, meglio “humanity”. Questa è solo una delle indicazioni dell’Unione Europea che a Febbraio 2025 ha pubblicato una dispensa contenente le linee guida all’uso della lingua inglese. All’interno è presente una sezione specifica dedicata al linguaggio inclusivo.
Tra le indicazioni, la guida suggerisce di evitare espressioni contenenti la locuzione “man” per evitare implicazioni sul genere della persona a cui ci si riferisce. Per questo bisogna preferire “firefighter” a “fireman”, “police officer” a “policeman”, “humanity” a “mankind”, “chairperson” a “chairman”.
La questione si insinua all’interno di un problema molto ampio, quello della necessità (o non necessità) di prestare attenzione al genere grammaticale dei nomi per includere le minoranze. Anche i linguisti si dividono in questo. L’argomento però non è più solo scientifico, ma è sceso in politica.
Sull’argomento si esprime Francesca Foppolo, professore associato di linguistica presso il dipartimento di psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca con un dottorato di ricerca in neuroscienze cognitive.

Avendo esaminato le linee guida dell’UE, lei cosa ne pensa?
Io sono un po’ estremista in questa posizione. Non la approvo, perché non approvo l’idea che vi è alla base, la teoria del relativismo linguistico.
Ovvero?
Secondo la teoria del relativismo linguistico di Sapir e Whorf le parole formano il pensiero, ovvero cambiando il modo in cui chiamo certe cose, cambio anche il mio modo di pensare. Se è vero che non approvo la teoria del relativismo linguistico, non è che non approvo questi cambi linguistici. Credo che siano cambiamenti “inutili”, una sorta di “palliativo” che non porta a un vero cambio di rotta nella società…che è quello che invece servirebbe!
Si spieghi meglio.
La comunità scientifica è molto divisa sulla posizione rispetto a questa teoria. Perché secondo chi sostiene la teoria del relativismo linguistico, una parola come “chairman” attiverebbe a livello mentale una rappresentazione maschile, perché contiene “man”. Questa rappresentazione, è vero, si attiva, ma non è dovuta alla parola “chairman” in sé, ma dalla percentuale di persone maschi o femmine che occupano quella certa posizione nella società. Sono i cosiddetti bias di genere.
Mi faccia un altro esempio.
Se io dico “leader” in inglese, forma non marcata per genere, lei penserà a una serie di nomi maschili. Perché al momento la maggioranza dei leader che dominano il mondo sono uomini e non donne. Quindi il punto è questo, anche una parola che non ha dentro nessuna forma di genere, come leader, lo stesso potrebbe attivare una rappresentazione sbilanciata sul maschile. È lo stesso discorso della femminizzazione dei nomi.
In cosa consiste la femminizzazione dei nomi?
È un’ideologia che spinge a togliere il maschile generico nella lingua italiana, perché le forme maschili amplificano l’androcentrismo nella nostra società, lo sbilanciamento tra i generi. Chi la sostiene vorrebbe che dicessimo “avvocata”, “ingegnera”, “sindaca”, “magistrata”. Ma io non credo che sia una questione linguistica. Credo proprio che finché non cambia la società, si possono cambiare tutte le etichette del mondo, ma la rappresentazione mentale che si attiva sarà sempre la stessa.
Quindi questa guida dell’UE potrebbe trovare l’accordo delle persone che sostengono il relativismo linguistico?
Certo.
Sembra che questa guida voglia essere “inclusiva”. Ma il linguaggio inclusivo è davvero necessario?
Da linguista la risposta per me è no, perché non cambia nulla al modo in cui tu ti rappresenti la società a livello mentale. Si sta dando grande enfasi alle forme linguistiche, e questa guida ne è la prova. Quello che si dovrebbe invece fare è creare opportunità vere per le donne e non fare delle rivoluzioni linguistiche. Ma la sinistra di tutta Europa sta buttando molto l’accento su queste rivoluzioni linguistiche. A molti linguisti però sembra una battaglia sterile perché usare un linguaggio inclusivo non potrebbe avere dei grandi effetti a livello cognitivo.
Se il linguaggio inclusivo avesse degli effetti a livello sociale il problema sarebbe già risolto, giusto?
Certo. Se ce li avesse, per esempio, negli stati a lingua madre inglese, come Stati Uniti o Gran Bretagna, quando diciamo “leader”, che non è marcato per genere grammaticale, non si attiverebbe mentalmente l’immagine di un uomo e ci sarebbero tanti leader donne quanti sono gli uomini. Ma non è così: anche in chi parla inglese si attiva l’immagine di un uomo e c’è maggioranza di leader uomini.
Altro esempio è quello del turco e del finlandese: in queste lingue nulla è marcato per genere, neanche i pronomi. Quindi ancor meno dell’inglese in cui i pronomi sono marcati per genere… he/she/her/his… E non è che in Finlandia e in Turchia non ci siano disparità sociali tra uomini e donne. In Finlandia forse ci sono più donne che hanno raggiunto posizioni apicali e il gender pay gap è più ridotto che in Italia. Ma non si può di certo fare lo stesso discorso per la Turchia. E questo basta per far capire che il marcare o non marcare le parole per genere non aiuta a cambiare la società.
Mi diceva che è un discorso su cui le sinistre europee puntano molto. Sta diventando quindi sempre di più una battaglia politica?
Certo. Nell’Unione Europea le persone che promuovono tutti questi cambiamenti probabilmente hanno una matrice di base abbastanza di sinistra e di lotta femminista. Addirittura quello che sta succedendo adesso è che se tu dici che sei contrario a queste rivoluzioni linguistiche vieni considerata una persona conservatrice o di destra. Quando invece magari non è così. Sono due discorsi diversi, soprattutto per un linguista. Da una parte ci sono le idee politiche, dall’altra c’è la scienza e la linguistica.
Ma perché è un tema caro soprattutto alla sinistra?
Perché in realtà nasce come protezione di una minoranza, ovvero le donne. Non nel senso numerico, ovviamente, ma nel senso di difficoltà e battaglie che hanno dovuto combattere. E chi è che protegge le minoranze se non le sinistre?
Il linguaggio inclusivo potrebbe aver degli effetti negativi?
Potrebbe averceli l’utilizzo di simboli quali la schwa, gli asterischi, il point médian in francese, che sarebbe un punto posto a separare le due desinenze. Potrebbero creare problemi a tutti coloro che soffrono di dislessia o gli anziani. E a quel punto, io dico, vai a discriminare un’altra minoranza, quella di chi ha difficoltà a leggere. E sia l’Accademia della Crusca sia l’Académie française hanno confermato la validità linguistica dell’uso della forma maschile come generica.