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Le politiche family friendly non frenano la denatalità

Articolo pubblicato sulla rivista mensile Master X

Le politiche family friendly non hanno quasi mai funzionato, né in Italia né altrove. Sussidi e agevolazioni fiscali risultano misure inadeguati per combattere la crisi demografica.

Spirito del nostro tempo

La bassa fecondità è lo spirito del nostro tempo, sostiene il demografo Massimo Livi Bacci. E non ha tutti i torti. Il calo del numero di figli per donna è infatti un fenomeno diffusissimo a livello globale in questi anni.

Per come sono concepite oggi le nostre società, si tratta di una tendenza che potrebbe mettere seriamente a repentaglio il futuro economico degli Stati: la diminuzione generale delle nascite, unita al progressivo invecchiamento della popolazione, porterebbe infatti ad avere un numero di lavoratori relativamente basso se confrontato con la quota dei nuovi pensionati, e quindi insufficiente a garantire stabilità alla tenuta finanziaria nazionale.

Buchi nell’acqua

Per questo motivo, negli ultimi decenni diversi governi hanno cercato di correre ai ripari, introducendo riforme e stanziando fondi per combattere la crisi demografica. Il problema, però, è che queste misure si sono dimostrate inadeguate. La curva delle nascite nei Paesi in cui sono state messe in atto politiche family friendly ha infatti continuato a scendere, a fronte di sostanziosi investimenti pubblici. E questo a riprova del fatto che i governi sbagliano a pensare che l’aumento dei tassi di fecondità sia in loro potere.

Prendiamo, ad esempio, il caso della Finlandia. Nel paese scandinavo, il tasso di fecondità delle donne è diminuito di quasi un terzo rispetto al 2010 (oggi è all’1,5), nonostante siano state messe in atto dai governi misure di sostegno alle famiglie, quali l’assistenza alla maternità, il congedo di paternità e sussidi all’infanzia in età prescolare. Va peggio alla vicina Norvegia, che per risolvere il problema della culle vuote ha speso in incentivi alla natalità una quota superiore al 3 per cento del Pil (una cifra addirittura superiore alle spese per la difesa). Risultato? Tasso di fecondità all’1,4, ben al di sotto della soglia di guardia del 2,1 necessaria per garantire a una popolazione la possibilità di riprodursi.

Non solo in Europa

Ma il fenomeno non è solo europeo. Al pari di Finlandia e Norvegia, anche il Giappone ha percorso la strada delle politiche per contrastare la denatalità senza sortire i risultati sperati. A partire dagli anni Novanta, Tokyo ha stanziato fondi per congedi parentali di un anno, ha aumentato i posti disponibili negli asili nido sovvenzionati e ha erogato assegni bimestrali per ogni famiglia con almeno un figlio. Inutile dire che si è trattato di un buco nell’acqua (oltre che nel bilancio), con il tasso di fecondità che è passato dall’1,57 della fine degli anni Ottanta all’1,2 del 2023.

Insomma, bonus, agevolazioni fiscali e ogni altro mezzo di contrasto alla denatalità si sono rivelati inefficaci a invertire il trend delle culle vuote un po’ ovunque. Eppure, come mostrato da un rapporto dell’Unfpa, tra il 1968 e il 2015 il numero dei Paesi che hanno deciso di attuare politiche mirate ad aumentare la fecondità è cresciuto da 19 a 55. Una tendenza che si spiega con la preoccupazione di molti governi di sostenere la demografia nazionale, ma che finora non ha prodotto i risultati attesi. Come mai?

Falsa diagnosi

Il punto è che queste misure di sostegno alla natalità non centrano il problema, e finiscono per incentivare a fare figli donne che probabilmente li avrebbero comunque fatti. La falla nel sistema consiste nell’idea, diffusa un po’ ovunque, che il basso tasso di fecondità generale sia da collegare al fatto che sempre più donne preferiscano la “carriera” alla famiglia. Che spendano più tempo per la propria formazione (ritardando l’ingresso nel mondo del lavoro) e che per questo motivo facciano figli più tardi. Tuttavia, questa è una falsa diagnosi della situazione.

Il ritardo nell’avere figli per questa categoria di donne c’è, ma non è così grande rispetto a qualche anno fa. Prendiamo, ad esempio, gli Stati Uniti: nel 2000 in media una donna istruita concepiva il suo primo figlio a ventott’anni, mentre oggi a trenta. E allora? Allora non è alle donne che hanno “scelto la carriera” che lo Stato deve rivolgersi, bensì alle donne più povere e più giovani.

Di fatto, il calo del tasso di fecondità degli ultimi trent’anni è causato principalmente da un crollo delle nascite tra le donne sotto i diciannove anni. Si calcola che oggi negli Stati Uniti circa due terzi delle donne senza laurea sui vent’anni non hanno figli. Nel 1994 vent’anni era l’età media di una donna che diventava madre per la prima volta. Dati, questi, che potrebbero (e dovrebbero) far riflettere alcuni politici sul modo in cui vengono pianificate le mosse per fronteggiare la crisi demografica.

 

Alessandro Dowlatshahi

Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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