Federico Buffa: «I miei errori? Non li sopporto. Sono ossessivo come Kobe Bryant, a cui dedico il mio nuovo spettacolo»

Il grande storyteller italiano si racconta agli studenti del secondo anno del Master in Giornalismo IULM di Milano

federico buffaCapelli brizzolati, occhiali scuri a specchio, giacca marrone. Appena comincia a parlare potremmo chiudere gli occhi e sapremmo comunque che ad accompagnarci è la voce inconfondibile e appassionata che abbiamo sentito innumerevoli volte nelle telecronache NBA del passato, poi nei programmi tv e in teatro. Opere in cui ha sempre schiuso mondi (non solo) sportivi, narrato personaggi, epiche imprese di varie discipline… Quella voce ci sembra quasi un sinonimo di Federico Buffa che è stato eccezionalmente ospite del Master in giornalismo IULM a Milano per questa intervista.

Alla prima domanda: «Come si mantiene viva l’urgenza del racconto dopo anni di lavoro?», Buffa si alza dalla sedia, cammina fino a un grande foglio di carta e scrive a pennarello due semplici parole. «Sceneggiatore» e «sorte». Sono i due fili rossi che si incontrano e si separano e si incontrano di nuovo nella vita di uno dei giornalisti sportivi italiani più bravi. Ma non è solo il rimbalzo fortunato della palla da basket con cui ha iniziato la sua carriera davanti al microfono. Anzi, è soprattutto il merito di chi lo ha «salvato dalle acque» dell’avvocatura e gli ha indicato la via della telecronaca e della narrazione. Poi di chi gli ha mostrato che in teatro si può stare anche sopra il palco, non solo di fronte. E che davanti a una platea smetti di essere giornalista o attore, e diventi narratore. E poco cambia se Buffa parla di Micheal Jordan, Lucio Dalla, Jesse Owens o di Kobe Bryant, al quale è dedicato il suo nuovo spettacolo (The Kobe Experiment). Fino alla stagione appena cominciata dei Buffa Talks con Federico Ferri (dedicata agli Europei di calcio, ora su Sky Sport)… Anche lontano dalle telecamere, non rinnega la sua essenza, quella di grande affabulatore, di persona che parla ad altre persone. Dalla società coreana ai fratelli di Maradona.

Ha raccontato di aver realizzato tutte le 10 cose che da ragazzo si era prefissato di fare… Come fa a conservare la passione per ciò che fa?
Ho scritto la lista dei miei dieci obiettivi quando avevo quindici anni. Lo feci durante un’assemblea del liceo Manzoni di Milano, a cui aveva parlato anche l’attuale direttore di La7, Enrico Mentana. L’ultimo di quei dieci punti era recitare su un palco. Non pensavo lo avrei mai fatto, e invece… Se ciò che ti attrae diventa il tuo lavoro (per di più retribuito), la tua passione diventa inestinguibile. Il brillante “sceneggiatore” che sta scrivendo la storia della mia vita ogni 10-15 anni mi fa sperimentare cose che non avevo mai fatto. E così riaccende in me la fiamma.

Ma perché proprio il teatro per parlare di sport?
Stiamo parlando della più antica forma di comunicazione e la più difficile da sostituire. Io ormai sono “duplicabile”, perché c’è l’intelligenza artificiale (è successo davvero per un doppiaggio che non ero riuscito a fare di persona o a voce…). Ma sul palco lo spettatore sente come respiro e io sento come respira lui. In Corea esistono già i concerti con ologrammi, da Micheal Jackson a Elvis. Ma gli ologrammi non possono sbagliare, non improvvisano.

E in cosa differisce il giornalismo televisivo?
Immaginate di raccontare una storia davanti a mille persone in una platea e con altre 400mila connesse in tv. Bisogna lavorare sulla prossemica: i gesti, l’uso dello sguardo, il registro del discorso. Sono molti gli elementi non verbali che aiutano a rendere più efficace la comunicazione. Io per esempio parlavo troppo veloce, le mie parole quasi inseguivano i miei pensieri. Poi ho iniziato a scandire meglio l’ultima sillaba e automaticamente la mia respirazione e il ritmo sono cambiati. Prendersi il proprio tempo è fondamentale, nonostante sembri di rubarlo agli altri.

Come è passato da avvocato alla televisione e poi al teatro?
Il fulcro di tutto è la buona sorte… cioè che qualcuno ti dia una possibilità. E quando succede, devi dimostrare di meritare quella possibilità. Senza l’opportunità non si va da nessuna parte.

E la sua qual è stata?
Tutto ciò che ho fatto non me lo sono “guadagnato”, ma mi è stato offerto. La prima opportunità è arrivata dopo che avevo lasciato lo studio da avvocato. Mi chiamò l’allora direttore di Telepiù e mi fece la proposta: «Abbiamo preso i diritti per il college basket. Vuoi venire a commentarle?». Al ‘ti andrebbe’ ero già lì. Poi vent’anni dopo mi ha raccontato la verità. Al termine della mia prima telecronaca, un dirigente di Telepiù gli disse: «Questo scappato di casa non me lo fate più sentire vero?». Il mio amico mi difese. Poi il dirigente gli telefonò di nuovo dopo la seconda partita: «Come mai quel tizio è ancora lì?». Poi probabilmente ha smesso di ascoltarmi, visto che ho potuto continuare a fare quello che facevo…

E poi?
Comprarono i diritti per la NBA, e iniziai a commentare anche quella. Anni dopo il direttore del calcio di Sky mi chiamò per fare narrazione sportiva. Mi chiese di andare “contro” alla tv commerciale e di rallentare il ritmo di un battito, di prendermi il mio tempo contro la “dittatura dell’immagine”. Raccontare storie del passato mi ha facilitato: oggi nessuno può raccontare Jannik Sinner perché tutti possiamo vedere le sue partite di quando aveva dodici anni. Svanisce la meravigliosa brina del non visto, del semplice sentito.

Da qui il passaggio al palco?
Nel 2014 mi contattò il Teatro Menotti, che mi chiese di trasferire una di queste puntate su un palco. «Dicci solo cosa vorresti fare, al resto pensiamo noi», questa era la proposta. Iniziai con le Olimpiadi del ’36. Dovevano essere tre repliche da poco più di due ore… sono diventate 136. Sono diventate il mio mestiere. Certo, conta molto cosa fai delle possibilità che ti vengono fornite. Ma è inutile pensare che possiamo crearcele da soli. Per questo provo sempre ad aiutare chiunque mi chieda una mano, anche solo per la prefazione di un libro. Dire «sì» non costa nulla. Anzi può incidere tanto in un mondo che brucia così in fretta.

Ma nel suo caso non c’entra anche il talento?
In alcuni momenti ho sentito forte la sindrome dell’impostore: «Cosa ci faccio qui? Perché proprio io?». Bisognerebbe imparare a capovolgere queste domande: «Che cosa di me ha fatto sì che io sia qui al posto di un altro?». Spesso si dice che il successo e l’opportunità incontrano il talento. Potenzialmente è vero. Un nome su tutti: Antonio Cassano, che è usato come parametro in tutto il mondo. Perché cosa facciamo dell’opportunità conta quanto l’opportunità stessa.

Si reputa un perfezionista?
Sono un eterno insoddisfatto, infatti tendo a non riguardarmi e a non risentirmi. Sia perché le esigenze televisive sono devastanti e la produzione è costretta spesso a tagliare parti che reputo fondamentali. Sia perché mi perderei tra i ‘potevo dirlo meglio’. Dicono che per stare bene con se stessi bisogna avere condiscendenza nei confronti dei propri errori. Ecco, io non so convivere con i miei errori. Ma in fondo in ogni fuoriclasse c’è una componente ossessiva, che è la gemella dell’eccellenza.

Quindi si reputa un fuoriclasse?
No, sono solo ossessivo. Ad esempio non riesco a parlare senza essermi lavato i denti. Credo che così le parole escano meglio. Ma sono sicuro che per raggiungere qualunque obiettivo serva un modo di fare ossessivo. Quando Cristiano Ronaldo giocava al Real Madrid e tornava dalle trasferte di notte, non andava a casa ma al centro di allenamento e si faceva un’ora di vasca del ghiaccio per potersi allenare – come “nuovo” – il giorno dopo. Con Kobe Bryant arriviamo addirittura al patologico. È l’11 settembre 2001, e durante l’attentato alle Torri Gemelle lui si sta allenando di notte dall’altra parte dell’America. Perché? Non riesce a dormire se sa che qualcuno in un fuso orario diverso dal suo si sta allenando mentre lui riposa. Tra l’altro in questo momento sono in scena proprio con uno spettacolo su di lui, The Kobe Experiment. Non avrei mai pensato di riuscire a fare un lavoro su Kobe dopo la sua morte. È «experiment» perché è quasi la richiesta di un permesso a chi ascolta…

In lei l’ossessività “kobebryantiana” come si esprime?
Tendenzialmente non ricordo quello che ho sentito ma quello che ho scritto, se l’ho scritto bene. Il gesto della penna sul foglio mi rimane impresso nella mente, forse accede a qualche parte nascosta della mia psiche.

E come avviene il passaggio dall’inchiostro allo schermo?
Bisogna esercitare la memoria. Sono ancora più portato a lavorarci perché ho perso mia madre per Alzheimer. Per me lei è mancata non il giorno in cui è morta biologicamente, ma quando ha smesso di riconoscermi e sapere chi ero io. Ha perso la sua identità quando ha perso la memoria, da qui deriva la mia ossessività. Non a caso mi metto alla prova tutti i giorni nell’accesso alla mia banca dati cerebrale. Di solito per allenarmi faccio un gioco: se vedo una parola su un cartellone pubblicitario, devo tradurla immediatamente in tutte le lingue che conosco. Se risolvo subito la sfida tendo a ricordarmi le cose.

Nella sua carriera ha incontrato tanti campioni. Quello che più di tutti l’ha delusa?
Una marea di calciatori… Attribuisci a loro “superpoteri” che non hanno. Se poi esci dal tuo limbo ed entri nel loro mondo, nei campi di allenamento, è quasi traumatico. Ti accorgi che tutte le volte che non hai mangiato o che ti sei fustigato anche solo per un pareggio, che hai sofferto all’inverosimile, a molti giocatori interessava meno di zero.

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