Dal 2035 non potranno più essere immatricolate né vendute automobili con motore termico, ossia a benzina o diesel, e nemmeno vetture con motore ibrido. Il Regolamento europeo, votato il 14 febbraio dall’Europarlamento, è in linea con il Fit for 55 e con il New Green Deal.
L’obiettivo è l’azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050. Ma la misura rischia di ripercuotersi negativamente sui livelli occupazionali e sulla filiera dell’automotive. Soprattutto in un Paese come l’Italia, che è ancora indietro nel settore dell’elettrico.
Cosa prevede la misura
Il Regolamento approvato dal Parlamento europeo in seduta plenaria era una misura attesa da mesi: già il 27 ottobre era stata raggiunta l’intesa tra Consiglio ed Europarlamento sulla proposta della Commissione. Prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale manca ora solo l’ultimo passaggio formale, ossia l’approvazione in Consiglio europeo.
Lo stop dal 2035 all’immatricolazione e alla vendita di auto e furgoni a motore termico riguarda solo le nuove vetture immesse sul mercato: quelle già presenti su strada potranno continuare a circolare. La misura rappresenta un forte incentivo alle auto elettriche, ma in futuro anche a quelle a idrogeno e a biocarburante.
Scadenza posticipata alla fine del 2035 per i produttori di nicchia, ossia per le aziende che ogni anno producono meno di 10 mila auto o meno di 22 mila furgoni. Esenzione totale per le imprese che producono meno di mille veicoli l’anno.
Il Regolamento europeo prevede anche una scadenza intermedia: entro il 2030 le imprese produttrici dovranno ridurre del 55% le emissioni di CO2 delle nuove auto immesse sul mercato, e del 50% quelle dei nuovi furgoni.
Inoltre, entro il 2025 la Commissione dovrà presentare una nuova metodologia per valutare i dati sulle emissioni di CO2 durante l’intero ciclo di vita di autovetture e furgoni immessi sul mercato europeo.
Approvata anche una clausola di revisione: nel 2026 la Commissione sarà chiamata a riesaminare l’efficacia e l’impatto del Regolamento, proponendo misure adeguate di follow-up. Entro la fine di quell’anno dovrà monitorare il divario tra i valori limite di emissione e i dati reali sul consumo di energia e carburante. Valuterà anche la possibilità di mantenere in circolazione i motori ibridi e quelli che utilizzano gli ecocarburanti.
Verso la neutralità climatica
Il Regolamento appena approvato dall’Europarlamento mira alla riduzione delle emissioni di CO2. La transizione energetica – dicono i suoi sostenitori – comporterà benefici per la qualità dell’aria, specie nelle città, e per la salute dei cittadini europei.
La decisione è in linea con gli obiettivi del New Green Deal e del RepowerEu. Rientra inoltre nel Fit for 55, il pacchetto di misure con cui l’Ue intende ridurre, entro il 2030, le emissioni inquinanti del 55% rispetto ai livelli del 1990. L’obiettivo finale è la neutralità climatica entro il 2050, ossia l’azzeramento delle emissioni di CO2.
Sempre il 14 febbraio, il Vicepresidente della Commissione europea e Commissario al Clima, Frans Timmermans, ha proposto un’altra misura. Gli autobus urbani dovranno raggiungere la neutralità carbonica entro il 2030. Mentre i camion dovranno ridurre le loro emissioni del 45% (rispetto ai livelli del 2019) dal 2030, del 65% dal 2035 e del 90% dal 2040. Questa rimane ancora una proposta, ma se venisse realizzata spingerebbe ulteriormente l’Ue nella direzione della transizione energetica.
Il voto in Parlamento europeo
A favore del Regolamento hanno votato 340 parlamentari. 279 i contrari e 21 gli astenuti. Sul voto si è spaccata la “maggioranza Ursula”, ossia la coalizione – formata dal Partito Popolare (Ppe), dai Socialisti e democratici (S&d) e da Renew Europe – che nel 2019 elesse Ursula von der Leyen alla Presidenza della Commissione europea.
La maggioranza degli europarlamentari del Ppe ha votato contro, insieme ai due partiti di destra, ossia Conservatori e riformisti europei (Ecr) e Identità e democrazia (Id). Le formazioni politiche che governano in Italia hanno tutte respinto la misura, nonostante appartengano a gruppi europei distinti. Forza Italia, infatti, è nel Ppe, Fratelli d’Italia in Ecr, Lega in Id. Solo 26 europarlamentari del Ppe hanno votato a favore, insieme a S&d (cui aderisce il Partito democratico), alla maggioranza di Renew Europe (di cui fa parte il Terzo polo), nonché Verdi e Left.
Le reazioni dall’Italia
Coerentemente con il voto in Europarlamento, i partiti italiani di centrosinistra hanno accolto positivamente il nuovo Regolamento europeo. I Verdi hanno parlato di «voto storico», il Pd di «vittoria dell’ambiente e dell’industria europea e italiana che guarda al futuro».
Dall’altro lato, reazioni critiche sono arrivate dal centrodestra. Anche se al Coreper (il tavolo degli ambasciatori Ue) i rappresentanti del governo italiano avevano dato il via libera al testo. Il leader della Lega e Ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ha parlato di «decisione folle e sconcertante contro le industrie e i lavoratori italiani ed europei, a tutto vantaggio delle imprese e degli interessi cinesi». Salvini si è dunque chiesto se la misura sia stata mossa da «ideologia, ignoranza o malafede».
Più cauto il Ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin. «Gli obiettivi ambientali non sono in discussione», ha affermato, ma occorre «procedere su due direttrici: da un lato promuovere una maggiore gradualità nello stop alla commercializzazione dei veicoli, dall’altro spingere al massimo nella produzione dei biocarburanti».
Il Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, è tornato sul tema durante il tavolo tra governo, Stellantis e sindacati: «L’obiettivo è una sostenibilità che garantisca occupazione». Per il Ministro, l’impegno è quello «di tutelare a Bruxelles e con i partner europei gli interessi della filiera automotive e quindi dell’occupazione nel nostro Paese».
I rischi sui livelli occupazionali
Non solo l’Italia, ma anche la stessa Unione europea teme ripercussioni negative sui livelli occupazionali. Nel novembre 2022, il Commissario europeo al Mercato interno, Thierry Breton, aveva stimato che la misura avrebbe comportato la perdita di 600 mila posti di lavoro lungo tutta la filiera. Secondo Breton, le nuove occupazioni green non riusciranno a colmare del tutto questa perdita.
Inoltre, il Commissario europeo aveva sottolineato l’enorme sforzo necessario per aumentare la quantità delle colonnine di ricarica. L’Ue dovrà anche impegnarsi per incrementare l’accessibilità delle auto elettriche e per trovare le materie prime per la produzione delle batterie. Proprio da queste criticità deriva la clausola di revisione inserita nel Regolamento.
L’Italia indietro sull’elettrico
Per implementare la misura l’Italia deve fare ancora molta strada, visti i dati sulla produzione e il consumo delle auto elettriche.
In realtà, secondo uno studio di Eurostat, nel 2021 l’Italia era in termini assoluti il quinto paese in Europa per numero di auto elettriche in circolazione (118 mila). Al primo posto c’era la Germania (618 mila), seguita dalla Norvegia (465 mila), dalla Francia (402 mila) e dai Paesi Bassi (245 mila).
Ma nel 2021 l’Italia era anche il secondo paese europeo per numero di auto ogni mille abitanti. Dunque, se rapportato con il totale delle vetture circolanti, nel 2021 le auto elettriche in Italia erano solo lo 0.3% del totale, contro lo 0.76% della media europea. Al primo posto c’era il Belgio (2.78%), seguito dalla Danimarca (2.39%) e dalla Svezia (2.21%). Meglio dell’Italia anche molti altri paesi dell’Ue, comprese Germania (1.27%) e Francia (1.04%). Allargando i dati anche ai paesi europei non nell’Ue, in testa alla classifica c’era la Norvegia (oltre il 15%).
Il dato italiano è comunque in crescita: nel 2018 le auto elettriche erano meno dello 0.05% del totale di quelle circolanti. E nel 2021 sono state immatricolate in Italia oltre 50 mila auto elettriche, più del doppio rispetto all’anno precedente (erano state meno di 25 mila). Ma la strada da fare è ancora molto lunga. Dal 2018 al 2022 le immatricolazioni di auto elettriche in Italia e in Spagna sono aumentate di meno del 5%. Molto meglio la Francia (quasi il 15%), il Regno Unito e la Germania (più del 15%), e i Paesi Bassi (oltre il 20%).
Nel 2022 le auto elettriche vendute in Italia sono state solo il 3.7% del totale, un valore paragonabile a quello della Spagna (3.8%). Numeri decisamente più alti in Francia (13.3%), nel Regno Unito (16.6%) e in Germania (17.8%).
I rischi per l’Italia
Poiché l’Italia è indietro sull’elettrico, la nuova misura rischia di impattare negativamente sul settore dell’automotive. Per implementare gli obiettivi europei e garantire i livelli occupazionali, la nostra filiera dell’auto è completamente da riconvertire.
Come sostiene Ferdinando Uliano, Segretario nazionale dei metalmeccanici Fim Cisl, «oggi la filiera è posizionata per il 55% sui motori e benzina e per il 59% su quelli a diesel». In base ai dati citati da Clepa, l’Associazione europea della componentistica, entro il 2040 sono in pericolo 73 mila posti di lavoro in Italia, di cui 67 mila già nel periodo 2025-30. Il totale di lavoratori europei a rischio entro il 2040 è di 275 mila.
Inoltre, «l’imposizione tecnologica dell’elettrico comporta un aumento dei costi delle autovetture a batteria di circa il 50% e il rischio è che i consumatori non le comprino», sostiene il Segretario della Fim Cisl. In Italia c’è poi il problema della distribuzione delle colonnine elettriche sul territorio: il 58% si trova nel nord del Paese.
Per la riconversione della filiera, il governo italiano ha già stanziato 6 miliardi per i prossimi sei anni, ma molti temono che la cifra non sia sufficiente. I rischi per la nostra economia sono davvero elevati, considerando che il settore dell’automotive rappresenta il 5% del Pil nella filiera produttiva.