Oltre al sì alla revisione del processo per il caso Rosa e Olindo del 10 gennaio 2024, diverse indagini sono state riaperte in Italia. Sembravano capitoli chiusi, e invece stanno tornando alla luce. Nuove indagini, nuove prove e nuove prospettive aprono la strada alla ricerca di quella verità che, per anni, è rimasta nascosta.
«Al di là di ogni ragionevole dubbio», ma ora questa sicurezza non c’è più.
Chiara Bolognesi e Cristina Golinucci: c’è un solo killer?
Trent’anni di misteri aleggiano intorno al caso di Chiara Bolognesi e Cristina Golinucci. Due giovani ragazze, rispettivamente di 18 e 21 anni, che non si conoscevano pur avendo frequentato la stessa scuola e la stessa chiesa di Cesena, dove entrambe erano attive nel volontariato.
Era il 1° settembre 1992 quando Cristina scomparve nella zona adiacente al convento dei frati Cappuccini di Cesena. Aveva parcheggiato l’auto con l’intenzione di entrare nel convento per andare a un appuntamento con Padre Lino, suo confessore, ma così non fu.
Contattato dalla famiglia, il prete affermò di aver atteso Cristina per mezz’ora e di non averla mai vista arrivare. Ma senza fare riferimento al fatto che la macchina della ragazza fosse parcheggiata di fronte al convento.
"Cristina Golinucci e Chiara Bolognesi si conoscevano di sicuro". Umberto Gaggi, un fondatore di A.V.O. #Cesena, smentisce ipotesi inquirenti dell’epoca. "Quando sono scomparse erano entrambe volontarie, fecero il primo servizio insieme". #chilhavisto→https://t.co/PArWCkFAdr pic.twitter.com/fsKZD90r6c
— Chi l'ha visto? (@chilhavistorai3) February 25, 2023
All’epoca si archiviò il caso come allontanamento volontario. «La ragazza proveniva da una famiglia non abbiente, di contadini, e venne detto che non poteva trattarsi di sequestro perché era impossibile che qualcuno pretendesse un risarcimento», afferma l’avvocata Iannuccelli, assunta dalla madre di Cristina.
Poco più di un mese dopo, il 7 ottobre, Chiara scomparve a Ponte di Abbadesse. Si tratta di una zona che si trova sotto al parcheggio in cui è stata ritrovata l’auto di Cristina. I ricercatori ritrovarono il corpo della diciottenne un mese dopo la scomparsa nel fiume Savio. Si decise di archiviare il caso come suicidio. Questo fino al 7 febbraio 2023, quando, nel cimitero urbano accanto al parcheggio del convento, sono state riesumate le sue spoglie per riaprire un’indagine di omicidio.
Le testimonianze
Tre anni dopo la loro scomparsa, una ragazza raccontò che nel 1992 subì un abuso sessuale da un ospite del convento dei frati Cappuccini di Cesena: Emanuel Boke. Incarcerato per stupro, nel 1999 Boke rivelò a Padre Lino, andato a visitarlo in carcere per confessarlo, di aver ucciso Cristina e occultato il cadavere. Confessione che però Boke, dopo la morte di Padre Lino, negò di aver fatto, portando al proseguimento delle indagini.
Ma negli anni successivi arrivarono le testimonianze di altre due ragazze che negli anni 90 frequentavano gli ambienti del convento dei Cappuccini di Cesena. Anche loro affermarono di aver subito abusi sessuali da un uomo di mezza età legato all’ambiente della chiesa e del volontariato. Si apre così anche la pista di una setta satanica in cui le ragazze venivano reclutate come sacerdotesse e in cui dovevano sottostare ad abusi sessuali con gli iniziati.
Dal 2010, i primi tasselli dei due casi hanno iniziato a incastrarsi, passando per il 2012, quando il parroco di Ronta confessò di aver ricevuto nel 1992 delle telefonate da uno sconosciuto. Affermava che avrebbero trovato il corpo di Chiara nel Savio e quello di Cristina nel Tevere, vicino a un convento di frati Cappuccini dove abitavano due religiosi che quando Cristina scomparve erano a Cesena.
Di lì a poco trovarono Chiara nel Savio, ma di Cristina nessuna traccia. Alla luce di tutti questi fatti, la Procura di Forlì ha annunciato la riapertura del caso con l’idea che le due ragazze siano state uccise dallo stesso uomo.
Un suicidio inscenato: il caso Denis Bergamini
Suicidio o omicidio? È questa la domanda che per 30 anni si sono posti tutti coloro che conoscevano l’ex calciatore Denis Bergamini.
Nonostante le poche prove a disposizione e i diversi interrogativi sulla vicenda, all’epoca del decesso – il 18 novembre 1989 – si credeva che il calciatore si fosse buttato volontariamente sotto un camion a Rose Capo Spulico. Con la riapertura del caso, però, si è arrivati a un’altra conclusione: Bergamini sarebbe stato ucciso e poi ne avrebbero inscenato il suicidio.
Una prima apertura era arrivata ancora nel giugno 2011, quando la procura di Castrovillari tornò a indagare a fronte di nuove prove. A insistere per scoprire la verità familiari, amici e tifosi del calciatore, che dal 2009 cominciarono a manifestare contro l’archiviazione del caso.
Una svolta arrivò nel febbraio 2012, quando il Reparto Investigazioni Scientifiche di Messina depositò alla Procura la propria perizia. Per i RIS, Bergamini era già morto quando fu investito. Attraverso delle simulazioni constatarono che la catenina e l’orologio che indossava non presentavano gravi danni, cosa impossibile se si fosse veramente gettato sotto il camion.
Nel 2017 una seconda riapertura. Il GIP di Castrovillari dispose la riesumazione della salma e pochi mesi dopo l’esito dell’autopsia confermò le precedenti teorie: quello del novembre 1989 fu un omicidio.
Calcio. Denis Bergamini e quelle “bandiere” che gridano verità https://t.co/tFtCBo0rWT
— Federico Aldrovandi (@giustiziaxaldro) November 26, 2018
Le indagini sul caso
L’unica imputata fu Isabella Internò, allora fidanzata del calciatore. Smontate le ipotesi riguardanti un crimine di stampo mafioso, gli investigatori si concentrarono esclusivamente sulla donna. Per l’accusa il movente fu di carattere sentimentale. Dopo che rimase incinta e abortì, Bergamini non volle sposarla, e anzi la lasciò. I due stavano vivendo un periodo tormentato, così come noto agli ex compagni di squadra Michele Padovano, Claudio Lombardo e Francesco Nocera.
A conoscere la crisi della coppia, però, anche un uomo misterioso, colui che scrisse di aver assistito alla morte del calciatore. Uno scritto rimasto inedito per 34 anni, che racconta di un’accesa discussione tra Bergamini e Internò pochi attimi prima che il camion travolgesse il giocatore. Per lo scrittore anonimo quella sera fu un tragico incidente, causato dalla distrazione dell’autista. Nessun suicidio o omicidio premeditato, solo una fatalità.
Leggendola si scoprono diversi dettagli che avrebbe potuto conoscere solo un testimone, ma le altrettante numerose discrepanze con quanto in mano alle autorità ha fatto sì che finora nessuno desse realmente peso alla lettera.
Intanto continua il processo. Nel settembre 2023 l’ex fidanzata – imputata con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato – non si è sottoposta all’esame della Corte d’Assise, del pubblico ministero e della parte civile.
A ottobre un nuovo stop, con i testimoni della difesa assenti all’udienza.
Mafia, omicidio Toffanin: 31 anni dopo si riapre il caso
Fu ucciso dalla mafia per un assurdo scambio di persona. Così la vita di Matteo Toffanin finì ad appena 23 anni. Un ragazzo padovano come tanti altri, scambiato per il trentanovenne Marino Bonaldo, all’epoca sodale di Felice Maniero (boss della “Mala del Brenta”).
Il 3 maggio 1992 il giovane divenne la prima vittima della mafia in Veneto, fino ad allora considerata solo al sud. Due coincidenze lo condannarono: il luogo, con la casa della fidanzata Cristina Marcadella vicina a quella del mafioso, e l’auto, uguale nel modello e con tre numeri di targa corrispondenti.
Diversi spari di fucile e revolver colpirono Toffanin e compagna, uccidendo sul colpo il primo e ferendo alla gamba la seconda.
Il vero bersaglio, però, non era lui, semplice rappresentante per una ditta di computer. La vittima designata era Bonaldo, poiché non aveva pagato una grossa partita di droga. Eroina e cocaina, comprate insieme a un “socio” – un quarantunenne di Piazzola sul Brenta – da un’organizzazione di trafficanti milanese. Il piazzolese, incaricato della distribuzione degli stupefacenti nel padovano, dopo alcune minacce saldò il suo debito. Bonaldo invece temporeggiò, nonostante la finta fucilazione e la distruzione del suo negozio a colpi di pistola.
Nel 1993 il Giudice per le indagini preliminari Maurizio Gianesini emise un ordine di custodia cautelare per Bonaldo, portando all’arresto dello stesso con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di armi ed esplosivi.
Le indagini si focalizzarono fin da subito su un gruppo del milanese che aveva avuto affari in comune con Bonaldo. Tra loro, alcuni pregiudicati siciliani furono iscritti sul registro degli indagati. Nel 1997 l’assenza di sufficienti elementi per il rinvio a giudizio portò però ad archiviare la loro posizione.
La riapertura del caso
Nel febbraio 2023 la procura di Padova riaprì il caso, proprio dopo aver identificato il vero obiettivo.
Il 24 marzo dello stesso anno Maniero fu sentito dalla Procura, ma senza sbilanciarsi: confermò di conoscere i protagonisti, ma affermò di non saper nulla sulla vicenda.
Nei mesi successivi una lettera anonima venne indirizzata al Pm Roberto D’Angelo della procura di Padova. Questa conteneva tutti i nominativi di chi conosceva la verità, e permise di identificare i due sicari – attualmente indagati per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione.
La mancanza di prove che certifichino la loro responsabilità, però, lascia il caso aperto, che continua ad essere uno dei più grandi cold case italiani.
Serena Mollicone: 22 anni di incertezze
Era il 2001 quando Serena Mollicone, diciottenne, fu ritrovata morta in un boschetto nel comune di Arce, in provincia di Frosinone.
Mani e piedi legati con filo di ferro, testa avvolta da un sacchetto di plastica e bocca e naso coperti da nastro adesivo che le causò un’asfissia meccanica.
Secondo gli inquirenti, la mattina del 1 giugno 2001 Serena era entrata nella caserma dei carabinieri di Arce e non vi era mai uscita.
Sembra che quel giorno la ragazza abbia avuto un diverbio con qualcuno, presumibilmente un componente della famiglia Mottola, che è culminato nel suo omicidio. E sembra anche che i due carabinieri Vincenzo Quartale e Francesco Suprani, fossero a conoscenza delle dinamiche dell’accaduto. A confermare questa teoria, il brigadiere Santino Tuzi, morto suicida nel 2008, pare dopo le minacce di Quartale, indagato infatti per istigazione al suicidio.
Le nuove indagini
Dopo una prima indagine inconcludente, nel 2016 si riesumò il corpo di Serena per sottoporlo a nuovi esami. Tra le 250 pagine della nuova perizia realizzata, si evidenziano alcuni elementi centrali. Innanzitutto, dal corpo di Serena furono asportati gli organi genitali, probabilmente per eliminare eventuali tacce biologiche. Tracce di metallo trovate sugli indumenti della ragazza, ma non sulle scarpe, confermano che l’omicidio non sia avvenuto nello stesso luogo del ritrovamento del cadavere.
A questo si lega una delle prove principali, le tracce di legno e vernice ritrovate tra i capelli di Serena e sul nastro adesivo che le avvolgeva la testa. Una frattura cranica e questi frammenti di legno incastrati nei capelli, suggeriscono l’impatto con una porta. Non una porta qualunque, ma una porta in casa Mottola, su cui sono visibili i segni di un buco che Mottola dice di aver fatto tirando un pugno e i cui materiali trovano riscontro in ben 28 frammenti del nastro adesivo.
Serena non è mai uscita viva dalla caserma, e, infatti, l’ex maresciallo Franco Mottola, la moglie Annamaria e il figlio Marco vivevano proprio sopra la caserma.
Nel 2011 il Pubblico Ministero iscrisse i tre componenti della famiglia Mottola nel registro degli imputati, ma i test del DNA non diedero alcun riscontro, facendo cadere di conseguenza anche le accuse contro i due carabinieri, ritenuti informati sui fatti. Si arriva così alla conclusione delle indagini nel 2018 e all’assoluzione degli imputati nel 2022.
Ma solo un anno dopo, la Corte d’Assise di Roma ha deciso di riaprire il processo. Con 44 nuove dichiarazioni tra testimoni e consulenti, le tre udienze, fissate per il 7, 14 e 21 dicembre, potrebbero portare a risvolti inaspettati.
Omicidio Vitalina Balani, il 20 febbraio la prima udienza
Il 14 luglio 2006, tra le 13:30 e le 14:05, Andrea Rossi uccise la cliente Vitalina Balani. Questa fu la sentenza definitiva della Cassazione nel 2010, dopo una condanna in primo grado nel 2008 e in Appello l’anno successivo.
Ora, dopo 16 anni già passati in carcere, la Corte di Perugia ha accolto la richiesta di revisione presentata dall’avvocato Gabriele Bordoni. Sul tavolo della difesa nuovi studi scientifici: le macchie di sangue sul braccio destro della donna sposterebbero l’orario del decesso, garantendo a Rossi un alibi intaccabile.
La signora Balani fu trovata strangolata nel suo appartamento in via Battindarno, nella parte ovest di Bologna. Il decesso si fissò a 24 ore prima rispetto al ritrovamento del cadavere, avvenuto alle 12 del 15 luglio. Un elemento fondamentale per l’accusa – vista l’assenza di prove inconfutabili -, ma che verrà messo in discussione dalle nuove prove scientifiche.
Tra prove e alibi
Secondo la perizia della difesa l’orario inizialmente indicato sarebbe infatti sbagliato. La donna sarebbe morta nella serata del 14 luglio, quando il commercialista si trovava a un convegno. Un alibi di ferro, inconfutabile rispetto al primo. Al principio Rossi portò infatti lo scontrino di un bar come alibi. Prova ritenuta insufficiente poiché l’orologio del registratore di cassa era indietro di un’ora.
Altra tesi a sostegno della difesa è la mancata presenza di tracce del DNA dell’uomo, che sarebbero dovute inevitabilmente finire sul corpo nel caso ci fosse stata un’aggressione. L’accusa insiste invece sul movente: 2.2 milioni di euro dati in gestione, ma poi sperperati e non restituiti.
Il commercialista era una persona fidata per Balani e marito, tanto che nei giorni precedenti all’omicidio entrò nell’appartamento dei coniugi e, con la scusa di cercare alcuni documenti importanti, li convinse a farsi aprire una cassaforte.
Di questi soldi, però, Rossi non fece mai accenno, e agli investigatori disse semplicemente di occuparsi della dichiarazione dei redditi della coppia. Altro elemento sospetto fu l’assenza dei file inerenti ai conti dei due anziani, cancellati prima del ritrovamento del cadavere.
Inoltre, nell’agenda di Balani consegnata alla polizia mancavano due pagine, trovate poi nel vocabolario del commercialista sotto la voce “delitto”. Su queste vi erano scritte le scadenze delle rate di interesse che avrebbe dovuto restituire. La prima sarebbe dovuta essere proprio il 14 luglio, e per questo la cliente chiamò Rossi poco prima di venir uccisa.
Le nuove prove hanno però portato a un processo di revisione, con la prima udienza che si terrà il 20 febbraio. L’avvocato Bordoni si dichiara speranzoso e attende i risultati della perizia medico-legale disposta per il 23 gennaio.
Liliana Resinovich: delitto d’amore o allontanamento volontario?
Liliana Resinovich, 63 anni, scompare a Trieste il 14 dicembre 2021. A denunciarne la scomparsa fu il marito, che da subito ha negato la possibilità di un allontanamento volontario della moglie.
Il corpo di Liliana fu trovato dentro alcuni sacchi di plastica il 5 gennaio 2022, nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Una prima autopsia rivelò una morte dovuta a uno scompenso cardiaco acuto, vale a dire asfissia, portando gli inquirenti a stabilirne il suicidio.
Ma questa conclusione non ha mai convinto nessuno dei suoi familiari, la cui insistenza ha portato alla riapertura del caso con un’indagine per omicidio. Oltre alla riapertura del caso, la Procura di Trieste ha disposto la riesumazione del cadavere per riuscire a stimare con esattezza la data del decesso attraverso una nuova autopsia.
Al momento del ritrovamento del cadavere, gli operatori erano già convinti che si trattasse di un suicidio. Questo li ha portati a commettere diversi errori e a esporre la scena del crimine a un grande rischio di contaminazione. “È stato fatto tutto male”, afferma il fratello Sergio.
Lacune e critiche alle indagini
Le operazioni sono infatti state svolte da persone senza tute. Poi calzari e cuffie per i capelli che non hanno effettuato la misurazione della temperatura del cadavere che avrebbe permesso di comprenderne data e ora del decesso. È a causa di questi errori che, il 13 giugno 2023, il gip Luigi Dainotti ha accolto l’ipotesi di omicidio volontario indicando ben 25 nuovi approfondimenti da effettuare.
La prima richiesta del gip riguarda la necessità di effettuare un raffronto tra i DNA ritrovati su alcuni reperti e il profilo genetico di alcune persone legate alla vicenda. Oltre a questo, saranno necessari nuovi esami comparativi tra un’impronta di un guanto ritrovata sui sacchi, i guanti usati dagli operatori e un guanto ritrovato vicino al corpo.
Sotto sequestro i dispostivi digitali di Liliana e in atto le verifiche delle celle telefoniche dell’area in cui è stata ritrovata. Ad essere controllati, anche i telefoni del marito di Liliana, Sebastiano Visintin, e di un secondo uomo, Claudio Sterpin.
Un terzo protagonista di particolare rilevanza dato che tra lui e Liliana c’era stata una storia d’amore, che, a detta di Sterpin, si era riaccesa qualche mese prima della scomparsa della donna. Affermazione fermamente smentita dal marito, che nega anche le accuse del presunto amante che ritiene che Visintin sia l’assassino di Liliana.
Tra presunte liti risalenti alla mattina della scomparsa, appuntamenti, e progetti annotati da Liliana per i giorni a seguire, l’ipotesi del suicidio si fa sempre meno netta.
Tutto dipende dalla data esatta della morte, per la quale dovremo aspettare inizio febbraio. Il 26 gennaio verrà infatti formalizzato l’incarico per la riesumazione che dovrebbe essere effettuata la settimana successiva.
La riapertura del caso Fausto e Iaio in segno di giustizia
Milano, 18 marzo 1978, Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, vengono uccisi nei pressi del centro sociale Leoncavallo. Un giallo che ha visto susseguirsi una serie di indagati, ma nessun condannato, archiviato nel 2000. Intorno al caso troviamo due grandi estremi: le Brigate rosse e i neofascisti.
I due furono accerchiati da tre persone che spararono a morte a Iannucci e ferirono Tinelli, che morì poco dopo in ospedale. L’omicidio avvenne due giorni dopo il sequestro di Aldo Moro, e il 26 marzo le Brigate Rosse omaggiarono i ragazzi con un messaggio che recitava: “Onore ai compagni Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli assassinati dai sicari del regime”. Alcune teorie collegano Tinelli con il covo delle Brigate Rosse di Milano che aveva sede a un civico di distanza da casa del ragazzo. Il Leoncavallo smentì, però, ogni ipotetico vincolo di comunanza tra i ragazzi e le BR.
L’inchiesta giornalistica
Un’indagine giornalistica di Radio Popolare evidenziava invece che i ragazzi avessero realizzato un dossier riguardo lo spaccio di eroina nei quartieri di Casoretto, Lambrate e Città Studi, imputato all’estrema destra. Da questo filone nacquero le indagini intorno a Massimo Carminati (legato anche alla Banda della Magliana), Claudio Bracci e Mario Corsi, noti esponenti dell’estremismo di destra di quegli anni.
Fausto e Iaio: non dobbiamo e non possiamo dimenticare
Ora a 46 anni di distanza dal loro omicidio, la Procura di Milano apre un fascicolo.
Speriamo nella Verità e nella Giustizia
dal @Corriere pic.twitter.com/UevgdXSoQq— Franco Maria Fontana (@francofontana43) January 17, 2024
Nel 2000 il caso venne però archiviato perché gli elementi a carico degli indagati erano solo indiziari. Con la lettera inviata dal sindaco Giuseppe Sala, ben 23 anni dopo la Procura di Milano guidata da Marcello Viola ha aperto un fascicolo conoscitivo, ancora senza indagati ufficiali, né ipotesi di reato, ma che porterà a rianalizzare tutte le prove.
La richiesta di riapertura nasce da una riunione del consiglio comunale di Milano del 29 maggio scorso. Al suo interno il consigliere comunale del Pd Rosario Pantaleo affermava che si dovesse riaprire il caso «in segno di urgenza di giustizia, seppure a tanti anni dagli eventi».
A cura di Elena Betti ed Elena Cecchetto