Enceladus, una delle lune che orbitano attorno al pianeta Saturno, potrebbe ospitare alcune forme di vita aliena. Da intendersi non come mostriciattoli alla E.T. o esseri super-sviluppati, bensì come elementi di provenienza esterna alla Terra. A rivelarlo uno studio pubblicato giovedì 14 dicembre sulla rivista Nature Astronomy.
I prodromi della scoperta
Tutto parte dalla missione di una sonda spaziale della Nasa, Cassini-Huygens, iniziata nel lontano 1997 con il compito di studiare Saturno e il suo sistema di anelli e lune. Dalle prime immagini rilevate, Enceladus si presentava come un grande globo di ghiaccio dal diametro di circa 500 chilometri.
Nel 2005 la piccola navicella rilevò pennacchi di vapore e cristalli di ghiaccio che fuoriescono da numerose fratture della crosta di Enceladus. In particolar modo questo accade in corrispondenza del polo meridionale. Getti di eruzione causati dalle cosiddette ‘tidal forces’ di Saturno, vale a dire le forze di marea che derivano dall’enorme massa del pianeta attorno a cui Enceladus orbita.
Queste forze tendono a deformare il satellite con movimenti pull and squeeze dandogli una conformazione ellissoidale. La compressione genera attrito, che a sua volta sprigiona calore a sufficienza per sciogliere la crosta ghiacciata in superficie.
Le prime analisi dei campioni raccolti dalla sonda avevano individuato all’interno dei pennacchi la presenza di cinque elementi fondamentali per la vita. L’acqua (H2O), l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), l’idrogeno (H2) e l’ammoniaca (NH3). Non solo. I getti erano secondo gli scienziati un indizio inequivocabile di reazioni idrotermali sotto la superficie della luna. Dove le rocce, rese incandescenti dall’attrito, incontrano enormi quantità di acqua liquida. Insomma, un grande oceano sotto la crosta ghiacciata: ottimo presupposto per la possibile presenza di forme di vita.
I nuovi studi
La sonda Cassini si disintegra – come da programma – nel 2017 contro l’atmosfera di Saturno. Finisce così una missione durata vent’anni i cui risultati sono tutt’ora oggetto di studio. Già all’inizio del 2023 un gruppo di studiosi aveva riesaminato i campioni raccolti trovandovi tracce di fosforo, indicatori di interazioni geochimiche tra un mare di acqua salata e il fondale roccioso.
L’ultimo passo in avanti è stato compiuto da Jonah Peter, biofisico di Harvard, e dai due collaboratori Tom Nordheim e Kevin Hand, entrambi parte del Jet Propulsion Laboratory della Nasa. I tre studiosi hanno riesaminato i dati raccolti dalla sonda nel biennio 2011-2012. Un’operazione difficile, dato che le molecole tendevano a frantumarsi a contatto con la camera di campionamento di Cassini a causa dell’elevata velocità. Per questo Peter ha dovuto sfruttare un metodo alternativo: tramite una tecnica di analisi statistica, ha confrontato le impronte molecolari dei campioni con quelle di miliardi di potenziali combinazioni di composti.
Le conclusioni hanno portato all’individuazione di quattro nuovi composti: l’acido cianidrico (HCN), l’acetilene (C2H2), l’etano (C2H6) e il propene (C3H6). Perfino tracce di alcol metanolo (CH3OH). Risultati che non erano visibili nell’analisi iniziale di Cassini perché gli strumenti di bordo non erano attrezzati per identificarli. Le nuove sostanze individuate sono adatte a fungere da elementi costitutivi o combustibile per forme di vita. Si tratta infatti di composti ossidati e ridotti, prodotto di cosiddette reazioni redox (ossido-riduzione), che consentono agli organismi di vivere, respirare ossigeno e fare fotosintesi.