Tornare alla condivisione di storie in un mondo audiovisivo sempre più frenetico. È questa la sfida che si pone Maurizio Nichetti a 75 anni. Uno degli autori più eclettici e originali del cinema italiano, ha diretto e interpretato film come Ratataplan, Ladri di saponette, Volere volare e Luna e l’altra. Da qualche anno è direttore artistico di Visioni dal mondo, il festival dedicato al cinema del reale. Giunto alla sua nona edizione, dal 14 al 17 settembre 2023 ospiterà a Milano 38 anteprime nazionali e internazionali, eventi e dibattiti. Abbiamo incontrato Nichetti in occasione della conferenza stampa di presentazione al Cinema Arlecchino.
Come nasce la collaborazione con Visioni dal mondo?
Ero amico del festival fin dalla prima edizione, per un periodo ho fatto anche la giuria. Da quattro anni mi occupo della direzione artistica. Il cinema della realtà mi ha sempre interessato, anche se non l’ho mai fatto: il mio è un genere un po’ più di fiction, fantastico. Avevo già diretto il Trento Film Festival anni fa, per cui è un tipo di cinema che mi piace seguire.
Cosa offre questa esperienza?
Mi entusiasma molto. Poi stranamente ogni volta che mi occupo di un festival cambia la tecnologia: quando facevo il Trento Film Festival c’è stato il passaggio dalla pellicola 16 millimetri al digitale; con Visioni dal mondo è invece arrivata la realtà virtuale, un altro salto qualitativo che farà diventare questo tipo di manifestazioni sempre più spettacolari.
Come vede il cinema nel futuro?
Il cinema, come lo abbiamo inteso con i Lumière e per tutto il Novecento, è già finito da un pezzo. Basta leggere i titoli di coda di Avatar – La via dell’acqua: non si parla più di un autore cinematografico che racconta una storia e dirige degli attori, ma di migliaia di tecnici che lavorano davanti a dei computer. Io ho iniziato a fare cinema quando ancora aveva un valore artigianale. Questo valeva per me, ma anche per Lucas e Spielberg, che si divertivano a raccontare storie che nascevano dalla passione di un ragazzo per il cinema. Ecco, questo oggi non c’è più.
Cosa ricorda della Milano in cui ha cominciato la sua carriera?
Era un periodo di tensione morale dove ognuno cercava di portare a teatro e al cinema i contenuti che erano nati nella contestazione di fine anni sessanta. Io ho fatto architettura, venivo dal Politecnico. Quando ho esordito con Ratataplan, qualcuno ha detto che era un film per bambini perché aveva un linguaggio vicino al cinema muto. In realtà parlava della disoccupazione intellettuale: dopo il ’68, per una serie di motivi, accadeva per la prima volta che i laureati non trovavano più lavoro. Il protagonista, l’ingegner Colombo, era un signor disoccupato che andava a fare il cameriere. Questo è un contenuto generazionale che all’epoca forse è passato in secondo piano, perché il film ha avuto molto successo presso le famiglie.
Un successo inaspettato?
Eravamo in nove persone a girarlo. Se lo paragoni ai titoli di coda di Avatar, capisci perché dico che oggi probabilmente sarei meno attratto nel dirigere 3.500 tecnici che non posso neanche conoscere.
Che consiglio darebbe ai giovani registi?
Di essere curiosi e di seguire la loro passione. Purtroppo oggi le persone non si accontentano più di vedere una piccola storia. La serialità televisiva ha inflazionato il quotidiano: sulla vicenda di una famiglia si costruiscono sette stagioni e la gente è contenta di rivedere sempre gli stessi personaggi. L’outsider, quello che vince con un’idea, difficilmente riesce a trovare uno spazio. Le sale cinematografiche stanno chiudendo, le piattaforme fanno solo la serialità che producono loro e le televisioni sono sempre più generaliste: più una cosa è originale, più non la prendono.
A proposito di televisione, che ricordi ha della sua esperienza in Fininvest?
Negli anni ottanta ho ideato Quo Vadiz? che è stato il primo grande varietà delle televisioni commerciali. Silvio Berlusconi mi aveva contattato subito dopo Ratataplan. All’inizio rifiutai, perché era il momento in cui avevo successo nel cinema. Ho fatto altri tre film, poi al primo che è andato male come cassetta, lui è tornato alla carica e ho deciso di accettare. Già all’epoca teorizzava i tre canali televisivi per fare concorrenza alla Rai. Ricordo di aver partecipato alla riunione in cui propose l’idea del Mundialito: visto che non poteva prendere i diritti delle partite di calcio, si inventava questo mondiale con quattro squadre trasmesso su Canale 5.
Lei però ha denunciato la deriva della televisione commerciale.
Sì, con il film Ladri di saponette. Tra l’altro prodotto grazie a Mediaset. C’era Silvio Berlusconi presente ed era un film contro le interruzioni pubblicitarie. Questo per dire che era un problema importante e lui stesso, che lo creava, era contento di parlarne. Ma non ne faccio una questione personale: anche senza Berlusconi, sarebbe arrivato qualcun altro perché comunque era matura l’epoca del potere televisivo, ormai superato con le piattaforme digitali.
Perché a un certo punto ha smesso di fare film?
Vent’anni fa avevo capito che se volevo continuare a fare il mio realismo fantastico non potevo prescindere dalle nuove tecnologie. E siccome ho sempre realizzato film artigianali, gestiti con budget bassi, non avevo il mestiere e la voglia di passare a un’imprenditoria più grande. Faccio un esempio: per Volere volare, dove persone in carne e ossa interagiscono con disegni animati, spesi gli stessi soldi che quelli di Roger Rabbit usarono per i titoli di testa.
In futuro prevede un ritorno al cinema?
Ora è stato rimandato dalla pandemia, dalla guerra, da tante cose che sono accadute, però entro la fine dell’anno dovrei tornare sul set come regista. Per il momento non posso dire altro. Se non succede qualche altro cataclisma mondiale, dovrei girare tra novembre e dicembre un nuovo film.
Il riconoscimento più grande che ha ricevuto?
Quando mi hanno dato la copertina di Topolino. In quel periodo conducevo Pista! che era un contenitore pomeridiano di Rai 1 dove per la prima volta venivano mandati in onda i cortometraggi storici della Disney. Per l’occasione fecero due storie a fumetti con il mio personaggio disegnato che incontrava Topolino. Ed era prima di Volere volare, perché siamo intorno a metà degli anni ottanta. Io stavo pensando a quel film e nel frattempo vivevo nel fumetto di Topolino. Quando i bambini ti riconoscono e fermano per strada, tutti gli altri premi passano in secondo piano.