«Sono bloccati lì tutto il giorno. Quattro persone per stanza. I materassi non bastano per tutti. Si litiga anche per le coperte. Per le lenzuola no. Tanto non le ha nessuno», con queste parole Nadia Bovino, volontaria Naga, prova a descrivere la realtà all’interno del Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio, di via Corelli 28 a Milano. Nadia è una delle poche persone che ha potuto vedere con i propri occhi. L’associazione di cui fa parte prova a garantire assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita ai cittadini stranieri irregolari, anche a quelli che finiscono in un Cpr. «Il cibo è precotto, anche da tre giorni prima. Le intossicazioni sono frequenti. È capitato persino che dopo aver bevuto del caffè tutte le persone abbiano avvertito sonnolenza, per poi scoprire che gli avevano messo la “terapia” nella bevanda», continua Nadia.
I numeri dei rimpatri
Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero dell’Interno, dall’inizio dell’anno al 14 novembre le persone rimpatriate sono in tutto 3.676. Il 78% di loro è originaria di soli tre Stati: Tunisia, Albania, Egitto. Su 10 Cpr in Italia, il totale di persone transitate nel 2021 sono state 5.147. Quelle effettivamente rimpatriate solo 2.520. Anche nei primi quattro mesi di quest’anno, per il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private di Libertà Personale, le persone transitate erano già 1.420, ma quelle effettivamente rimpatriate sono state 619, meno di una su due.
Strutture detentive, non luoghi di passaggio
Quelli che dovrebbero essere luoghi di passaggio prima dell’espulsione, diventano quindi vere e proprie strutture detentive di persone che potrebbero non aver mai commesso alcun reato, se non quello di entrare in Italia illegalmente. Si parla anche di gente che non ha documenti o che non ha mai ottenuto la cittadinanza italiana. Una delle ultime vicende, denunciata dall’associazione Naga, è quella di un ragazzo di origine bosniaca che è nato e cresciuto in Veneto e in Bosnia non era mai stato. Sui documenti risultava cittadino del paese balcanico per via delle origini della famiglia. È stato rimpatriato in uno Stato dove non conosce nessuno e non ha radici.
Diversamente, se si è tunisini si ha quasi la certezza di essere rimandati al proprio paese di origine, ancor prima di rendersi conto di cosa stia succedendo, non appena sbarcati. Grazie agli accordi che Italia e Tunisia hanno stipulato, nel 2021 ne sono stati rimpatriati 1.818 su un totale di 2.805 ospitati nei centri. Quasi la metà delle persone che finiscono nei Cpr sono dunque di origine tunisina, per una sorta di preselezione a monte. Quindi si va da un estremo all’altro, da chi viene respinto ancor prima che abbia un contatto con il nostro territorio a chi invece vi appartiene, ma non sulla carta.
Cosa succede dentro al Cpr
Non è semplice monitorare ciò che accade in questi luoghi. «Bisogna chiedere l’autorizzazione alla Prefettura, che quando permette di fare dei sopralluoghi, ti fa accedere solo agli uffici esterni, ma non nei moduli abitativi dove sono i migranti – spiega Nadia – . Una sorta di giro turistico, senza la possibilità di vedere le condizioni in cui vivono». La carta è vietata: potrebbe essere incendiata. Penne e matite proibite. Possono diventare armi con cui farsi del male. L’autolesionismo è infatti uno dei modi usati da chi è chiuso nel centro per evitare il rimpatrio.
Proprio in via Corelli, il 2 novembre scorso, un giovane tunisino si è cucito da solo le labbra dopo due giorni di sciopero della fame. Sei agenti di polizia gli si sono gettati addosso, lo hanno immobilizzato e, senza l’intervento di un medico, hanno strappato il fil di ferro usato per la sutura. A distanza di qualche giorno, un altro ospite ha ingerito le pile dell’unico telecomando presente nel centro. È stato ricoverato quando una di queste gli si è aperta nello stomaco.
“Sconfiniamo”, manifestazione per i diritti dei migranti
I due episodi sono stati denunciati dalla rete milanese “Mai più lager – No ai Cpr”, la stessa associazione che domenica 18 dicembre ha organizzato la manifestazione “Sconfiniamo”, in occasione della Giornata internazionale per i diritti dei migranti. Una mobilitazione che è partita da Piazza Duca d’Aosta e terminata in piazza della Scala. Un coro unito di cittadini, organizzazioni e attivisti. Tra loro Elena Catellani, presidente de i Sentinelli di Milano. «I Cpr sono solo la punta dell’iceberg. Da anni esistono politiche che criminalizzano la solidarietà e il lavoro delle Ong. Alle persone è vietato muoversi liberamente. È negato il diritto all’esistenza».
Negata la libertà di movimento
Questa limitazione è in effetti un’eccezione allo stato di diritto, ma con i Cpr è diventata la prassi, come spiega l’avvocato Nicola Datena: «All’interno di questi centri si sta fermi per quattro mesi o un anno. Queste persone vengono totalmente escluse dalla società civile, senza aver mai avuto un orientamento legale, senza conoscere i servizi a cui possono accedere e la possibilità di chiedere il riconoscimento della protezione internazionale». Il problema, però, rimane l’assenza di vie d’accesso legali. I visti turistici vengono sistematicamente negati e l’asilo politico è una misura usata solo per chi è perseguitato per motivi religiosi, di orientamento sessuale o per appartenenza a un particolare gruppo sociale.
L’occasione della vita
Eppure, molte delle persone che affrontano il difficile viaggio verso il nostro paese lo fanno solo per cercare un lavoro, perché quella è l’ultima occasione che hanno per sopravvivere. «Siamo quelli che vi portano da mangiare la sera, che coltivano i vostri pomodori, ma siamo anche quelli che non sempre hanno un contratto di lavoro – racconta per esempio Sidi, un ragazzo africano, durante il corteo – . E senza un lavoro non hai un permesso di soggiorno. Questo vuol dire anche che è difficile trovare una casa in affitto e quindi che spesso dobbiamo occupare luoghi abbandonati, rischiando di essere sgomberati. Ecco perché siamo qui a manifestare. Per far capire a tutti che le condizioni in cui siamo costretti a vivere in Italia sono spesso disumane».