Economia e mondo dei media sono strettamente connessi, non potrebbe essere altrimenti. D’altronde, si tratta di attività svolte da imprese private, le quali, al di là degli aspetti più sentimentali di progettazione dell’impresa, costituite da una mission e da una vision specifiche, hanno come fine ultimo fare profitto. Ed è per questo che la gestione di una impresa editoriale non può essere compresa senza la conoscenza dei concetti fondamentali dell’economia, dai principi macroeconomici agli strumenti di management aziendale.
Ma queste nozioni, pur essendo trasversali a tutti i comparti produttivi, hanno caratteristiche specifiche nei diversi settori del mercato. Peculiarità necessarie a collocarsi in precisi scenari competitivi e che contribuiscono a delineare differenti strategie di business per le aziende.
Le diverse strategie di business
Il mondo dei media sta vivendo un’era di subbugli. Le strategie di business applicate dalle imprese sono molteplici, volte a sfruttare efficacemente gli sviluppi economici, sociali e tecnologici della nostra contemporaneità. E se è vero che per avere un giornalismo di qualità è necessario avere un modello economico editoriale efficace, le aziende si stanno muovendo per comprendere quale sia il percorso migliore per raggiungere questo obiettivo.
Molte imprese hanno realizzato che diversificare le proprie linee di business potesse essere la giusta via per sopravvivere ai cambiamenti che la tecnologia, e non solo, stanno apportando allo scenario economico del settore. Il New York Times, per esempio, negli ultimi anni ha adottato la strategia di creare sotto-brand dotati di vita propria, efficaci nell’attrare un pubblico di abbonati che vada oltre il semplice giornale. Il Washington Post, in linea con le caratteristiche del suo proprietario, il fondatore di Amazon Jeff Bezos, ha lanciato due prodotti software che operano come linee di business separate dal resto del giornale.
Il modello considerato più vincente dagli editori, però, stando a quanto raccolto da un recente sondaggio del Reuters Institute, è quello che considera l’aumento degli abbonamenti come priorità assoluta per la riuscita dell’impresa editoriale. Convincere più persone possibile ad abbonarsi fa sì che l’azienda possa svincolarsi dalle pressioni causate dall’essere dipendenti economicamente dai flussi di capitale dei grandi gruppi finanziari. È solo tramite gli abbonamenti che i lettori possono riprendere in mano i destini del giornale, affrancandolo da influenze esterne ed interessate.
Troviamo, quindi, giornali come il New York Times, che, puntando sulla diffusione degli abbonamenti, cercano di aumentare il numero di cittadini in grado di informarsi – parliamo sempre di una fascia della popolazione istruita e borghese, in grado di pagare per questa risorsa, non di una democratizzazione totale ed effettiva dell’informazione. O ancora, troviamo il più radicale Guardian, quotidiano britannico che basa la sua sostenibilità economica sull’offerta volontaria dei suoi lettori, mantenendo gli articoli liberamente accessibili a tutti.
Quasi in posizione di antitesi rispetto ai due precedenti esempi, troviamo, invece, progetti editoriali come quello annunciato da Ben Smith, ex penna di punta del NYT e Justin Smith, ex amministratore delegato di Bloomberg Media. I due Smith hanno dichiarato di voler costruire un prodotto in grado di ricavare molto denaro, servendo un numero limitato di lettori benestanti, seguendo la strada efficacemente inaugurata da altre testate come Politico.
I privilegi dell’élite globalizzata
Poiché abbiamo parlato fin ad ora dell’importanza di perseguire un modello di giornalismo qualitativamente alto, fondamentale anche per raggiungere obiettivi economici, potremmo doverci domandare se questa qualità sia ancora un diritto universale del cittadino. Oppure se il diritto all’informazione sia in realtà un privilegio della cosiddetta “élite globalizzata”.
Alla base della mission e della vision di un’impresa editoriale come quella creata da Ben Smith e Justin Smith, infatti, c’è l’idea che gli stakeholder – coloro che nutrono un qualche tipo di interesse verso il progetto o verso gli obiettivi di business che un’azienda persegue e il modo in cui lo fa – possano sentirsi parte di un gruppo culturale e sociale esclusivo. Un élite, appunto, che riconosce in quella determinata impresa il perseguimento di un percorso strategico che possa portare al raggiungimento di interessi comuni e condivisi.
Il diritto all’informazione è un diritto soggettivo, codificato e tutelato dalla maggior parte dei moderni ordinamenti giuridici – seppur in Italia non sia espressamente menzionato nella carta costituzionale repubblicana. La sua importanza risiede nella possibilità di arginare l’aumento costante delle disuguaglianze a cui le democrazie occidentali hanno assistito, soprattutto a partire dalla fine del secolo scorso. Il risultato è stato la creazione di una asimmetria informativa de facto, che, pur camuffandosi nella forma, comporta una differenza sostanziale di accesso alle informazioni, in parte quantitativo, ma soprattutto qualitativo.
Questo è il modello strategico con cui alcune grandi imprese stanno pianificando l’entrata nell’era post-social media dell’industria editoriale: lavorare programmaticamente sulla costruzione di un élite globalizzata in grado di pagare adeguatamente un’informazione di qualità. Un processo che, consciamente o inconsciamente, faciliterà questi gruppi sociali nel mantenimento dell’egemonia culturale ed economica acquisita.
Accesso all’informazione e disuguaglianze economico-sociali
D’altronde, che la il mondo dei media sia collegato a doppio filo al potere economico non è certo un segreto. Allo stesso tempo, resta la speranza che questo possa affrancarsi, almeno in parte, dalle pressioni dei gruppi di interesse dominanti. Una soluzione, ad oggi, non c’è.
Come abbiamo visto, anche negli Stati Uniti d’America, il Paese che più di ogni altro è considerato – a torto o a ragione – il capofila delle sperimentazioni innovative che dovrebbero portare nel futuro il mondo dell’informazione, le soluzioni sono parziali.
Se una porzione limitata della popolazione è ben disposta a spendere, anche tanto, per un’informazione di qualità, la grande maggioranza dei cittadini si è disabituata a pensare di dover pagare per questa risorsa. La tecnologia, oltre alla finanza, è l’elemento più condizionante per lo sviluppo dell’industria dei media. In questo caso, il digitale ha comportato un cambiamento di paradigma nelle strutture di pensiero dei consumatori delle informazioni, ovvero i lettori-cittadini: le news ora sono considerate risorse estremamente abbondanti e alla portata di tutti, e per questo ci si aspetta di riceverle gratuitamente.
La rivoluzione digitale, applicata all’editoria, ha fatto sì che, oggi ancor più che nel passato, chi fa informazione debba dipendere da altro che non siano i ricavi derivanti dalle vendite e dagli abbonamenti. Gli editori sono così portati a rivolgersi, sempre più spesso, a grandi gruppi finanziari e a multinazionali, i quali hanno interessi prioritari precisi da perseguire per il loro business. Non per forza in consonanza con gli obiettivi, la mission e la vision di un giornale.
Dovremmo, infatti, tenere presente che giornalismo e comunicazione non sono sinonimi. Così come non lo sono, o non lo dovrebbero essere, lettori-cittadini e consumatori. Nonostante il giornalismo sia stato spesso accostato al marketing negli ultimi anni, catturare l’attenzione umana ed indurla al consumo di quel determinato prodotto non è il suo obiettivo. Sviluppare una coscienza critica nel cittadino e vigilare sui processi istituzionali dovrebbe esserlo. I nuovi modelli di business dovranno riuscire a trovare l’equilibrio tra sostenibilità economica e diritto all’equità informativa. In gioco non c’è solo la sopravvivenza del comparto dell’editoria, bensì di una società che non sia dilaniata da disuguaglianze insanabili.