Jeans usurati, magliette di una taglia troppo piccola o troppo grande, un maglione comprato per scherzo e un abito che non ci piace più. Sono migliaia i vestiti accumulati in montagne tra le dune fiorite del deserto di Atacama, in Cile. La zona franca di Alto Hospicio – due comuni 1800 km a nord della capitale Santiago – è diventata il cimitero della fast fashion internazionale. Ogni anno la sua discarica a cielo aperto accoglie più di 39 mila tonnellate di abbigliamento invenduto. Oltre a danneggiare la biodiversità di un ecosistema – patrimonio dell’Unesco – rappresenta un pericolo per la popolazione che abita l’area.
Come finiscono i vestiti nel deserto di Atacama
Le prime a diffonderle sono state la testata britannica Bbc e l’agenzia AFP, ma ben presto le immagini surreali del deserto di Atacama sono comparse sui maggiori organi d’informazione mondiale. I marchi sotto accusa sono molteplici e sono in gran parte quelli che vendono vestiti a basso costo negli Stati Uniti e in Europa. Da Zara ad HM.
Il Cile è stato a lungo un hub di raccolta dell’abbigliamento di seconda mano, prodotto in Cina o Bangladesh. La merce invenduta in Occidente ha infatti come destinazione i mercati dell’America Latina: ogni anni ne arrivano 59 mila tonnellate al porto di Iquique. I commercianti di Santiago non riescono però ad acquistare tutto l’avanzo. La maggior parte quindi rimane ad Alto Hospicio e viene accumulata nel deserto.
Un’emergenza ambientale
La maggior parte dei capi che compongono le dune artificiali sono in poliestere. Il materiale – derivato dalla plastica – è infatti più resistente e meno costoso rispetto al cotone. Ma anche nettamente più difficile da smaltire. Usurato dalle intemperie, inquina dunque il suolo e le falde acquifere sotterranee. Mette in pericolo la biodiversità locale. Gli indumenti, sintetici o trattati con sostanze chimiche, possono richiedere 200 anni per biodegradarsi. E sono tossici almeno quanto i pneumatici scartati o i materiali plastici.
Molto spesso poi l’unica soluzione per sbarazzarsi degli ammassi di abbigliamento e bruciarli. Le esalazioni dei roghi comportano gravi conseguenze per la qualità dell’aria, subite dalle popolazioni circostanti.
Le immagini surreali del deserto di Atacama
Un modello sbagliato
Per affrontare l’emergenza, il governo di Gabriel Boric ha annunciato una nuova legge sulla «Responsabilità estesa del produttore». Dunque le aziende che importano abbigliamento dovranno gestire gli scarti tessili. Gli osservatori e i cittadini però sono pessimisti: le risorse per controllare e imporre eventuali sanzioni alle industrie responsabili dell’inquinamento del deserto di Atacama sono troppo poche.
Il modello poi è problematico per l’ambiente in partenza. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata tra il 2000 e il 2014. Attualmente siamo arrivati a produrre 100 miliardi di capi all’anno e compriamo il 60% di indumenti in più rispetto a 10 anni fa. E questa somma non è priva di costi.
Quella del tessile è infatti diventata la seconda industria più inquinante, dopo quella del petrolio. Si stima che sarebbe responsabile del 20% dello spreco totale di acqua. Per realizzare un singolo paio di jeans, per esempio, sono necessari 7.500 litri di acqua. Alla moda sarebbero da attribuire anche tra l’8 e il 10% delle emissioni di gas serra globali: “Ogni secondo, una quantità di tessuti equivalente a un camion della spazzatura viene seppellita o bruciata”, afferma il rapporto. Dunque, anche se non rimangono sotto il sole deserto, le pile di vestiti inquinano.