La premier nordirlandese, Arlene Foster, si è dimessa. Non si tratta soltanto di un avvenimento politico di interesse locale. Ma è il capitolo più recente di una storia travagliata. I fantasmi dei Troubles in Irlanda non si sono infatti mai davvero ritirati. Il conflitto tra gli unionisti del Nord – protestanti e fedeli al Regno Unito – e i nazionalisti cattolici è sempre rimasto un sottinteso molto influente. Sia nella storia che nelle politiche dell’intera Gran Bretagna.
Ma negli ultimi tempi parevano assopiti. Le parole di condanna e di scusa alle vittime del Bloody Sunday, da parte di David Cameron, all’epoca della sua permanenza a Downing Street nel 2010. La visita della Regina Elisabetta II alla sede del Parlamento locale di Stormont nel 2011. L’incontro della premier della Repubblica d’Irlanda, Mary McAleese, con i nazionalisti e i rappresentanti della corona. E in generale il clima più disteso tra giovani – che non aveva affrontato l’epoca delle Peacelines, le linee di guerriglia cittadina – avevano per lo meno ammorbidito le divisioni storiche del paese.
La Brexit
Proprio quest’ultima generazione, che probabilmente ha meno memoria storica del fantasma per eccellenza, si è trovata a resuscitarlo. Complici le conseguenze dell’altro grande spettro affrontato da Londra negli ultimi cinque anni: la Brexit. Nel 2016 difatti il Regno Unito vota per uscire dall’Unione Europea. Se però in Galles e Inghilterra prevale il leave – circa il 52% – in Scozia e Irlanda del nord l’entusiasmo per l’allontanamento da Bruxelles è più tiepido. A Edimburgo scende addirittura al 38%, mentre a Belfast si aggira attorno al 48%.
I nazionalisti prendono una posizione chiara. Martin McGuinnes, leader dello Sinn Féin richiede nei giorni successivi un referendum per tornare indietro non solo sul voto. Ma di un secolo, per riunire il Nord a Dublino. Anche da parte degli unionisti si registra una tensione, destinata a peggiorare nei mesi successivi. L’avanzamento degli accordi coinvolge infatti in maniera diretta il confine irlandese.
I negoziati
Non troppo distante, dall’altra parte del Mare d’Irlanda nel 2019 sono falliti negoziati di Theresa May. La politica di Brasier aveva preso il posto del dimissionario Cameron con la promessa – non mantenuta – di portare il Regno Unito fuori dall’Europa senza danni. I Conservatori britannici affidano quindi la loro leadership a Boris Johnson. Il nuovo premier britannico si assume il difficile incarico. I due anni di transizione, previsti dall’articolo 50 dei Trattati sull’Unione, stanno scadendo. E non c’è più tempo nemmeno per i continui rimandi richiesti da Londra.
Uno dei nodi degli accordi è proprio la questione nord irlandese. Il rischio è di aggiungere un altro doloroso divorzio a quello britannico dall’Unione. Un confine troppo rigido tra la Repubblica d’Irlanda, indipendente, e l’Irlanda del Nord, avrebbe infatti rischiato di vanificare anni di accordi faticosamente raggiunti sugli spostamenti e i commerci tra i due stati.
Il Backstop
Lo slittamento della dogana e dei controlli lontano dal confine, nel Mare d’Irlanda, il backstop, avrebbe allontanato però il Nord dal resto del Regno Unito. Secondo l’accordo, Belfast sarebbe stata così sottoposta alle stesse leggi di Dublino in materia di dazi e circolazione di uomini e delle merci. Se, la ex premier, Theresa May, aveva definito questa proposta inaccettabile, Johnson la accoglie invece con entusiasmo.
Il compromesso però non accontenta l’Ue. La maggiore preoccupazione riguarda il Level Playing Fielding. Le aziende del nord infatti sarebbero infatti riuscite a fare concorrenza a quelle su suolo europeo. Ma avrebbero, allo stesso tempo, goduto dei sussidi e delle agevolazioni decise indipendentemente dal governo britannico. Inizia così un faticoso tira e molla. Il 24 dicembre 2020 Johnson cede su alcuni articoli del trattato d’accordo e la Brexit diventa ufficiale. Irlanda del nord e la Repubblica del sud restano unite sotto le regole dell’Unione Europea.
Le criticità
La decisione è uno smacco e una delusione per il partito Unionista irlandese, il DUP della prima ministra, Arleene Foster, che nel Parlamento di Westminster è stato tra i sostenitori più ferventi di Boris Johnson.
Il malcontento e le proteste. Le conseguenze più concrete del trattato vanno però oltre le questioni d’orgoglio. Riguardano di più la sfera economica. Per esempio, per trasportare gli animali domestici negli ultimi mesi è stato necessario un passaporto. Ci sono rallentamenti alle dogane anche per le altre merci e per i prodotti alimentari. Le forniture dei supermercati sono così rallentate in entrambe le direzioni, da e verso il Regno Unito.
Da una parte, procedure burocratiche come fanno desistere molti dei possibili acquirenti, danneggiando così le aziende di Belfast. Le stesse che avrebbero dovuto godere dei privilegi dell’allontanamento dall’Unione. Dall’altra, nonostante il periodo di grazia, che permetterebbe le importazioni di prodotti di prima necessità con un certificato speciale, questi da Londra in Irlanda scarseggiano. Emblematico il caso delle salsicce, alla base della famosa irish breakfast.
Non è però questa la sola conseguenza. La delusione interna porta l’assemblea del DUP e quattro parlamentari ha sfiduciare Foster sia come leader del partito che come capo di Stato. Le sue dimissioni saranno ufficializzate nel maggio del 2021.
Le proteste dei lealisti
Dall’inizio di aprile 2021, sono stati diversi scontri che hanno animato alcune città dell’Irlanda del Nord, tra cui Belfast, Derry, Carrickfergus e Newtownabbey. I manifestanti, per lo più ragazzi molto giovani, tra i 13 e i 25 anni, capitanati da gruppi militanti della fazione lealista (ovvero che si dichiara fedele alla Corona britannica) hanno devastato le vie delle città con bottiglie molotov, auto incendiate e lanci di pietre alla polizia che cercava di contenere la folla. Negli scontri 88 poliziotti sono stati feriti e sono stati arrestati 18 manifestanti.
Gli scontri nell’Irlanda del Nord sono avvenuti nella settimana del 23esimo anniversario dell’accordo di pace stipulato a Belfast il venerdì santo del 1998 e dalla costruzione dei cosiddetti muri della pace, ovvero le barriere che dividono a Belfast i quartieri protestanti da quelli cattolici.
Le cause contingenti che hanno animato gli scontri sarebbero apparentemente due: la decisione del capo della Police Service of Northern Ireland, Simon Byrne, di non perseguire la folla di circa 2000 partecipanti al funerale di Bobby Storey, ex capo dell’Ira, in seguito alla mancata osservanza delle norme anticovid, e la questione della Brexit.
Il feretro di Bobby Storey
Tra coloro che erano presenti alla cerimonia figurano i nomi di 24 membri dello Sinn Féin (IPA: [ʃɪnʲ ˈfʲeːnʲ]), il partito unionista portatore dell’ideologia politica dell’Ira, e il cui nome si traduce in inglese con Ourselves alone, ovvero “noi soli”. Come l’Ira, lo Sinn Féin è promotore di un’Irlanda unita e recentemente il partito avrebbe proposto un referendum per la riunificazione tra Irlanda del Nord ed Eire. Storey ha trascorso ben 20 anni in carcere da quando ne aveva 17: è stato infatti condannato a 18 anni di detenzione per il possesso di un fucile durante uno scontro dell’Ira, di cui era membro.
Un’ulteriore minaccia per i lealisti è l’accordo siglato da Unione Europea e Regno Unito nel Northern Ireland protocol del 1 gennaio 2021 per mantenere l’Irlanda del Nord all’interno del mercato unico europeo nonostante la Brexit. La creazione di un confine commerciale presente nel mare d’Irlanda allontanerebbe l’Irlanda del Nord dal Regno Unito. Il problema che si presenta è identitario: i lealisti protestanti vedono messa in discussione la loro appartenenza al Regno Unito e sentono incombere su di loro la possibilità di avvicinamento con la cattolica Irlanda. L’accordo tra Ue e Uk è stato pensato per evitare le conseguenze economiche devastanti alle quali avrebbe portato un confine terreno sul suolo irlandese.
Le proteste dei repubblicani
La violenza non è un metodo a cui ricorrono esclusivamente i dissidenti lealisti: infatti, risale esattamente a 2 anni fa la morte della giornalista 29enne Lyra McKee durante le proteste nella città nordirlandese di Londonderry, tristemente famosa per il Bloody Sunday del 30 gennaio 1972, con i dissidenti repubblicani della New Ira, della fazione opposta a quella lealista, nati in seguito ad alcuni sopralluoghi della polizia in alcune abitazioni nelle zone di Mulroy Park e Galliagh.
Gli scontri erano avvenuti in concomitanza dell’anniversario della rivolta di Pasqua del 1916, celebrata ogni anno dagli unionisti. Per la morte di Lyra McKee, la Nuova Ira ha ammesso la sua responsabilità.
La nascita dell’Ira e lo sviluppo negli anni 70
Le cause contingenti che sembrano essere alla base degli scontri che nelle ultime settimane hanno animato l’Irlanda del Nord, hanno un’origine che va ricercata in un nella storia del Novecento.
L’Ira, acronimo di Irish Republican Army, è il nome del gruppo paramilitare fondato nel 1917 dagli Irish Volunteers, i Volontari irlandesi. Il 27 ottobre dello stesso anno, i Volontari si sono riuniti a Dublino in concomitanza con una conferenza dello Sinn Fein, il partito di stampo unionista che predicava l’unione dell’Irlanda tra il Nord protestante e il resto dell’isola di fede cattolica. Dalla divisione dell’Irlanda, avvenuta cento anni fa nel 1921, l’Ira si è attivamente esposta con azioni anche ritenute terroristiche per la riunificazione dell’Ulster protestante con il resto della repubblica cattolica irlandese.
Negli anni ‘70, in seguito alla scissione dell’Ira in Official e Provisional del 1969, gli interventi di matrice terrorista si sono intensificati sia nell’Irlanda del Nord sia in Gran Bretagna, ricevendo sempre di più il consenso della popolazione cattolica. In quel periodo erano attive nell’Irlanda del Nord l’Uvf, l’Ulster Volunteer Force, e l’Uda, Ulster Defence Association, di stampo lealista e protestante, che rappresentavano l’opposizione alle due fazioni dell’Ira. Belfast, la capitale dell’Ulster, è diventata in quegli anni l’epicentro degli scontri tra le due fazioni. Le tensioni con il governo nordirlandese sono accresciute nel momento in cui, il 9 agosto 1971, quest’ultimo ha introdotto l’internamento senza processo dei membri delle organizzazioni.
Sunday bloody Sunday
L’immagine più iconica dei Troubles irlandesi – consegnata alla memoria da film e canzoni, oltre che dalla cronaca – è il Bloody Sunday, la domenica di sangue.
È il 30 gennaio del 1972. A Derry, oggi città simbolo dell’Irlanda del Nord, si sta tenendo una manifestazione per i diritti civili. I manifestanti si sono radunati per protestare contro una legge speciale del governo unionista: sarebbe bastata l’approvazione del ministro degli Interni per arrestare gli oppositori indipendentisti, senza un processo definito.
Viene dato l’ordine di intervenire al Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti. I soldati avrebbero dovuto disperdere la folla, ma inaspettatamente iniziano a sparare. Colpiscono ventisei persone e ne uccidono tredici. Cinque delle vittime vengono prese alle spalle, mentre cercano di fuggire. Dalla folla sarebbe provenuto il rumore di spari, si giustificano in seguito i membri del Battaglione. Ma molti testimoni contraddicono questa tesi. Non c’erano armi tra i partecipanti al corteo.
È l’inizio di un’escalation di violenza rapidissima, che fa crescere il consenso verso gruppi terroristici come l’IRA. Il primo ministro britannico Edward Heath apre un’inchiesta nei mesi successivi all’accaduto. Le prove e le testimonianze vengono però insabbiate e le autorità e i soldati britannici vengono prosciolti da ogni accusa.
Dieci anni più tardi, nel 1982, la ferita è ancora aperta. Dal palco di Belfast è la rockstar degli U2, Bono Vox, a cantare il grido di orrore e la ricerca di giustizia dei parenti delle vittime.
“Si chiama Sunday Bloody Sunday, parla di noi, dell’Irlanda. Ma se non piacerà a voi, non la suoneremo mai più”.
Gli U2 cantano Sunday Bloody Sunday
Bobby Sands e gli anni della tensione
La miccia è ormai esplosa. Per rispondere alle violenze e al terrorismo dell’IRA, il governo britannico adotta una strategia durissima, chiudendo ogni spiraglio al dialogo. Il 1 marzo del 1976 abolisce infatti lo status di prigioniero politico (Special Category Status) fino ad allora concesso ai detenuti appartenenti ad organizzazioni paramilitari. Gli indipendentisti irlandesi vengono così associati ai criminali comuni. A loro viene riservata una sezione apposita del carcere Long Kesh. I detenuti sono vittime di pestaggi e violenze.
La reazione non si fa attendere. All’esterno, l’IRA inizia una campagna di omicidi contro il personale carcerario. All’interno invece vengono inaugurati gli anni delle proteste. Dapprima contro l’uniforme carceraria, la blanket protest: i detenuti la indossano solo per vedere i propri familiari. In cella rimangono nudi, indossando solo una coperta. Alcuni preferiscono non ricevere visite, pur di non transigere all’umiliazione.
Nel 1978 è la volta della dirty protest. I prigionieri si oppongono alla brutalità della loro condizione rimanendo per giorni senza lavarsi e spargono i propri escrementi sui muri delle celle. In tutta la Gran Bretagna si levano voci di protesta, anche pacifiche, come quella dell’arcivescovo O’Fiaich, L’allora primo ministro Margaret Thatcher rimane però inamovibile.
Il volto più rappresentativo di quegli anni è Bobby Sands, morto a soli ventisette anni in carcere, il 5 maggio del 1981 dopo sessantasei giorni di sciopero della fame. Leader degli indipendentisti, era stato eletto al parlamento di Westminster per la circoscrizione Fermanagh-South Tyrone, poco prima del suo decesso. È il primo di dieci detenuti a morire a causa del digiuno di protesta, quell’anno.
La svolta del Good Friday
L’opinione pubblica è scossa. Sia dalla parte britannica, che da quella irlandese. Intanto la sezione più politica del movimento indipendentista inizia ad acquisite sempre più importanza. Il Sinn Féin, che comincia a partecipare regolarmente alle elezioni amministrative e politiche, non recandosi però in parlamento in segno di dissenso. Le istanze dei nazionalisti vengono così istituzionalizzate.
L’IRA continua a terrorizzare il Paese. Gli anni tra il 1988 e il 1993 passano all’insegna degli attacchi. Nell’aprile del 1992 quello alla City di Londra, che causa danni per circa 2 milioni di sterline. Le trattative non ne vengono però scoraggiate. Nel 1994 si annuncia il cessate il fuoco. È la prima volta in venticinque anni. Per la vera svolta bisogna però attendere un vero cambio al vertice del governo britannico: nel 1997 viene eletto Tony Blair. A Dublino invece Bertie Ahern, mentre nello schieramento unionista David Trimble dal ‘72.
Gli accordi del Good Friday
Sono i tre nomi legati allo storico Good Friday Agreement, il 10 aprile del 1998, un Venerdì santo appunto, in cui si siglano gli storici accordi che mettono una fine – almeno temporanea – al conflitto nordirlandese. Tra i punti principali la ricomposizione del Parlamento di Belfast, con rappresentanti cattolici e protestanti, il rilascio dei detenuti politici e un nuovo cessate il fuoco. Dalla Costituzione della Repubblica viene tolta ogni pretesa territoriale sull’Irlanda del Nord, che si riconosce come separata e indipendente. Mentre l’IRA si impegna a smantellare il proprio arsenale e così anche i gruppi paramilitari unionisti. La situazione si avvia, con il nuovo millennio a una graduale stabilizzazione.
O almeno così ha creduto per un ventennio la generazione che ha conosciuto la guerra. How long must we sing this song? si chiedevano gli U2 nell’iconico inno irlandese Sunday bloody sunday.