Disastro colposo, omissione dolosa di controlli e atti falsi. Queste alcune delle accuse ai 68 indagati per il crollo del Ponte Morandi di Genova, che il 14 agosto del 2018 causò la morte di 43 persone. Le indagini, ancora in corso, coinvolgono i vertici di Autostrade per l’Italia. Le mancanze nella manutenzione e i depistaggi sullo stato del Viadotto in verbali, attestazioni e documenti ufficiali fornirebbero le prove per contestare un reato doloso.
Un allarme annunciato
Il crollo del Ponte poteva essere evitato e gli allarmi sono stati ignorati. Mossi da questa convinzione, i pubblici ministeri, Massimo Terrile e Walter Cotugno, il 15 marzo, hanno esposto al gip Angela Nutini le possibili imputazioni per i responsabili della tragedia sul Viadotto del Polcevera. Nonostante, come hanno tenuto a specificare, «nessuna norma del codice impone al pm di formulare nessuna enunciazione in questa fase».
Ai già noti disastro colposo, omicidio colposo plurimo, attentato alla sicurezza dei trasporti, si aggiungono l’omissione dolosa di controlli infortunistici. Non erano infatti stati riparati i sensori di monitoraggio dinamico che avrebbero segnalato l’instabilità della struttura.
Già nel 2014, un anno prima del loro danneggiamento, questi dispositivi avrebbero rilevato una situazione di pericolo per il Ponte Morandi. In un documento ufficiale di Autostrade il viadotto era stato dichiarato “a rischio crollo”. Era l’unica struttura in Italia a riportare questa dicitura. Per gli inquirenti, questa circostanza dimostrerebbe che la società ha volontariamente ignorato i rischi connessi all’utilizzo del Ponte.
Le accuse formalizzate dalla Procura di Genova potrebbero poi variare in sede di processo. Se però rimanessero queste, gli imputati rischierebbero un massimo di dodici anni per un reato con dolo, contro i cinque per quello colposo.
Dito puntato sui vertici
Fra gli indagati, i dirigenti di Spea, la società incaricata, fino a dicembre 2019, del monitoraggio della rete autostradale italiana. Ma soprattutto Giovanni Castellucci, ex numero uno di Autostrade, il suo braccio destro Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli, responsabile della manutenzione.
Già chiamati in causa a novembre 2020 in un’inchiesta parallela sui pannelli fonoassorbenti, un’intercettazione telefonica aveva provato le carenze di Donferri e Berti. I due non avevano effettuato segnalazioni, nonostante la conoscenza dello stato di corrosione dei cavi del Ponte Morandi, dovuta a un difetto di progettazione, cinquanta giorni prima del crollo. La motivazione sembra essere stata il contenimento dei costi di manutenzione del viadotto,
Dopo il disastro, Castellucci avrebbe tentato, per evitare le loro accuse, la carta della promozione, secondo la Procura di Genova. Per Donferri in una società spagnola controllata dai Benetton, Mentre per Berti alla gestione degli appalti per Aeroporti di Roma spa.
Il reato di falsificazione
Sono invece sette gli accusati per i falsi report sulle condizioni del “Morandi“: Serena Alemanni, Carlo Casini, Giampaolo Nebbia, Massimo Ruggeri, Fabio Sanetti, Marco Trimboli e Marco Vezil. Questi ultimi sono tutti dirigenti di Spea.
I vertici di Autostrade avrebbero alterato anche i dati nelle lettere inviate al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sullo stato di salute del viadotto e sul progetto di di retrofitting, ossia gli interventi che avrebbero dovuto garantire la messa sicurezza del Ponte. La Procura di Genova ritiene che il via libera ai lavori del febbraio del 2018 fosse fondato su dati non genuini.
Il reato è addebitato nuovamente a Berti, l’ex direttore delle operazioni centrali, e Donferri, ma anche agli ingegneri del Ministero delle Infrastrutture, di Aspi e di Spea: Antonio Brencich, Salvatore Bonaccorso, Roberto Ferrazza, Giuseppe Sisca, Emanuele De Angelis, Massimiliano Giacobbi, Paolo Strazzullo e Mario Servetto. Le stesse accuse sono rivolte al dirigente del Ministero Giovanni Proietti.