Per i figli dei collaboratori di giustizia niente tutela del nome all’università

Il mondo cambia e cambia anche l’Italia. Quello che fa fatica a cambiare, però, è il sistema di leggi e norme che non si adattano al cambiamento.

“Un sistema da aggiornare”. Intervista a  Luigi Gaetti, ex presidente della Commissione centrale di protezione.

 

Luigi Gaetti, ex presidente della Commissione centrale di protezione

 

Si parla spesso di mafia ma poco di antimafia. Della differenza tra chi diventa testimone di un crimine mafioso e chi dalla mafia vuole uscire collaborando con la giustizia. Poi, però, ci sono i figli di queste persone che pagano le conseguenze di colpe non loro. Il programma di protezione nasce in un’epoca dove la guerra tra mafia e Stato era particolarmente violenta. Oggi, la mafia è cambiata. L’antimafia, però, sembra essere rimasta indietro. Abbiamo intervistato Luigi Gaetti, ex presidente della Commissione centrale di protezione per cercare di capire i motivi di questo ritardo.

“Il sistema di protezione ha praticamente 20 anni. Ci sono stati alcuni aggiornamenti successivi ma è ancora una struttura molto rigida. È improntata sul discorso della sicurezza delle persone senza tener conto che queste, hanno una serie di bisogni e una serie di relazioni – dice Gaetti. “Io avevo incominciato, con una visione di medio/lungo periodo, a cercare di rinnovarlo. In passato, la sicurezza che era ovviamente fondamentale, diventava prioritaria su tutto”.

Il caso del figlio del collaboratore Luigi Bonaventura ha messo in discussione l’efficacia del programma di protezione. Lui, ormai quasi 20enne, sente l’esigenza di continuare i suoi studi (vedi intervista in coda).  Per fare questo, dovrebbe presentarsi all’università con un’identità fittizia. Il programma di protezione, però, non garantisce la copertura all’interno delle università. Non potendo laurearsi in Italia è stato costretto a lasciare il suo Paese con il rischio di non rivedere più la sua famiglia.

“Spostare le persone come un figlio di un collaboratore che vuole fare l’università, risulta particolarmente complicato. In realtà tutte le università, oggi, hanno un sistema chiamato Alias che consente agli studenti di iscriversi all’università cambiando nominativo. Questa è una cosa molto riservata. Lo sa solo un responsabile della segreteria. Lo hanno fatto perché molti ragazzi cambiano sesso e questo crea delle problematiche. L’anno scorso, durante un convegno a Como dove erano presenti tutti i funzionari delle università italiane, ho proposto di utilizzare lo stesso sistema per tutti i ragazzi che hanno un problema di sicurezza e vogliono studiare in un contesto diverso dal nido dove sono collocati con la famiglia e necessitano di una maggiore copertura e del cambio di nome. Alla fine dell’università sono gli studenti a decidere se vorranno il certificato di laurea con il loro vero nome. In questo modo, possono frequentare l’università con un nome di copertura in un regime di sicurezza. La mia relazione non è mai stata perfezionata. Purtroppo, il figlio di Bonaventura è tra i primi figli dei collaboratori di giustizia che si approcciano all’università. Si è diplomato con un voto molto alto alle superiori e ora si è trovato davanti questo ostacolo. Il programma di protezione segue le norme. Però, queste norme vanno aggiornate. Le cose sono cambiate e bisogna adeguarsi– dice Gaetti e aggiunge – Il servizio centrale utilizza le norme di un tempo che devono essere attualizzate. In questo caso, sarebbe sufficiente un regolamento tra le università e fare una sorta di protocollo con la Commissione centrale di protezione. Si dovrebbe utilizzare il sistema Alias, che esiste già e applicarlo ai figli dei collaboratori di giustizia”.

Garantire una nuova identità definitiva su tutto il territorio è ancora troppo complesso spiega Gaetti: “La struttura che garantisce la protezione sa che la persona si trova a Mantova (esempio) quindi, la Digos e i carabinieri sanno che si trova lì. Se la persona va a Milano ci deve essere un passaggio di comunicazione ma a questo punto le cose si complicano. Se è stata messa a Mantova significa che non ci sono elementi ostativi e non ci sono persone che ha denunciato. A Milano, invece, ci potrebbe essere qualcuno che ha denunciato e quindi diventa più rischioso. Potrebbe essere riconosciuta più facilmente rispetto a Mantova ed è per questo che è importante garantire un nome diverso. Cambiare l’identità di una persona è una cosa davvero molto complessa. Le persone che cambiano identità devono accettare anche dei compromessi. Chi cambia l’identità non dovrebbe nemmeno usare i social perché potrebbe essere rintracciato. E’ difficile cambiare l’identità in modo definitivo. Le persone devono essere adeguatamente formate. Cambiare l’identità su tutto il territorio nazionale significa far risultare Luigi Gaetti morto e sostituirlo con Paolo Rossi”.

L’ambizione, i sogni e la voglia di diventare un uomo adulto e indipendente ha costretto il figlio di Bonaventura a lasciare l’Italia in cerca di un futuro migliore.

“Far combaciare la nuova identità con il passato risulta molto complicato per chi gestisce il programma di protezione e il protetto. Chi accetta il programma di protezione, accetta delle regole. Una di queste regole è il divieto di andare all’estero perché lo stato italiano non può garantire la sicurezza fuori dal Paese. Io sono dell’idea che ci debbano essere delle regole che funzionino per tutti. Ogni collaboratore è un mondo a sé. È necessario, quindi, interpretare queste regole e adattarle alle esigenze dei collaboratori e della loro famiglia. Bisogna saper riconoscere l’eccezione e in qualche caso deve diventare la regola. Io avevo iniziato anche a ragionare su dei fondi per i figli meritevoli e con una certa media scolastica in modo tale da favorirli.  Per permettere a loro di crescere, di diventare autonomi e crearsi una nuova vita. Sarebbe nell’interesse dello Stato. Si formerebbero dei ragazzi intellettuali con la possibilità di evolversi. Vent’anni fa non c’erano figli di collaboratori che andavano all’università, adesso ci sono. Su questo bisogna costruire nuovi protocolli, nuove condizioni”.

Anche lavorare e diventare persone economicamente indipendenti risulta complesso per chi decide di dire “No” alle mafie: “Il lavoro allarga le sfere delle conoscenze e delle relazioni, quindi, potrebbe smascherare la presenza del collaboratore. Anche questo dovrebbe essere superato. Io avevo fatto un primo protocollo con i testimoni di giustizia.  Il passaggio successivo sarebbe stato quello con i collaboratori – dice Gaetti che spiega poi la differenza tra le due categorie – il testimone si è trovato casualmente ad assistere ad un fatto e no ha mai avuto problemi con la giustizia, quindi, è tra virgolette pulito anche se spesso non è così. Il collaboratore, invece, è uno che ha commesso dei reati. Il collaboratore che vuole lavorare deve risultare pulito ed essere inserito nella white list. La componente politica che deve spingere per un aggiornamento legislativo è la Commissione centrale, però, questi tecnicismi non li conosce praticamente nessuno. Per cui chi arriva lì, porta avanti l’ordinaria procedura che dura da anni ma nessuno si mette a fare riforme”.

I pregiudizi sui collaboratori di giustizia non aiutano le cose: “Le collaborazioni andrebbero analizzate. Ci sono collaboratori importanti che hanno fatto storia e hanno detto tutto. Poi ci sono invece dei collaboratori che hanno detto il venti per cento di quello che sapevano, sufficiente per avere lo sconto di pena e non stare in carcere. Alcuni hanno dichiarato anche il falso e hanno mandato in galera gente che non c’entrava niente. Quindi il sistema delle collaborazioni è decisamente molto più complicato. La differenza di trattamento c’è anche tra i figli dei testimoni di giustizia e quelli dei collaboratori. In passato questo argomento non è mai stato preso in considerazione perché i figli erano piccoli. Ora sono cresciuti e ci sono altri problemi. Parliamo di famiglie e sono convinto che dovrebbero esserci più donne nella Commissione centrale di protezione. Spesso le mogli dei collaboratori di giustizia sono sole perché il marito è in carcere e le donne capirebbero meglio le loro esigenze. Ora dobbiamo bilanciare la sicurezza con la qualità della vita. Questo è particolarmente difficile e complicato. È ovvio che il rapporto tra collaboratore e Stato deve essere chiaro. Il collaboratore si deve impegnare a rispettare le regole di copertura e lo Stato deve andare incontro alla qualità della sua vita”, conclude Luigi Gaetti.

“VORREI FREQUENTARE L’UNIVERSITA’ MA NON MI SENTO AL SICURO”. 

Intervista al figlio del collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura

“Mi sono dato un nome: Nemo. In latino vuol dire ‘nessuno’. Sono io nella realtà in cui vivo”. Uno pseudonimo per tutelarsi. Lui è il figlio del collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura.  Ormai ha quasi 20 anni e da 14 vive sotto protezione.

È cresciuto combattendo per “quei diritti che all’uomo dovrebbero essere garantiti come tali – spiega il ragazzo e continua – Tra nomi di copertura e cambi di località non ho mai potuto avere un’identità unica”. Diventato maggiorenne, Nemo ha il sogno di continuare gli studi ma quando è arrivato il momento di scegliere l’università gli è stata negata la possibilità di frequentarla a causa dei problemi riscontrati con il programma di protezione.

La scelta di lasciare l’Italia sembra essere l’unica soluzione ma questo potrebbe comportare un rischio molto grande: “Se parto, uscirei anche dal servizio di protezione. Tornando in Italia, quindi, non rientrerei più nel programma. Ho preso questa decisione perché tutto quello che faccio qui viene ostacolato. Vado all’estero per ricominciare una nuova vita. Voglio studiare là in quanto mi è negato qua. Voglio lavorare e diventare autonomo”, dice con tristezza.

Nemo non si vergogna della sua famiglia e supporta la lotta che i suoi genitori stanno portando avanti per cambiare questo Paese e aggiunge: “Io mi rivolgo a tutti quelli che fanno antimafia e alle cariche dello Stato. Hanno il dovere di tutelare i loro cittadini perché se ancora mi è concesso, io rimango un cittadino italiano. Mi sento abbandonato da tutti quelli che non dovrebbero abbandonarci. Sappiamo a chi rivolgerci ma sembra quasi che non abbia effetto”. La scelta di partire, quindi “rappresenta il fallimento dello Stato”, sottolinea il 20enne.  Un giovane italiano che riconosce il problema culturale e dice: “In Italia fa quasi figo appartenere a certi ambienti perché si pensa alla ricchezza e ad andare contro alla legge. Quindi, chi denuncia viene visto come un infame. Gli stessi mafiosi utilizzano questo termine per definirci. Come esiste lo stereotipo del migrante, esiste lo stereotipo del collaboratore di giustizia. Per molti è difficile scegliere la collaborazione. È un misto tra ignoranza e interessi.”.

 

 

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