Quando non si sa cosa dire si urla, lo dice la psicologia. Ed è anche vero che in politica chi urla vince. È il mantra dei partiti populisti, che si considerano i difensori della democrazia perché incarnano, a loro dire, la volontà dei cittadini. Demos e populus, rispettivamente in greco e latino, rinviano infatti allo stesso soggetto: il popolo. E ogni volta in cui una parte di questo non si sente rappresentato torna, in un modo o nell’altro, qualche forma di populismo.
Nel 2017 il termine veniva scelto dal Cambridge Dictionary come parola dell’anno. Solamente un anno dopo, in Italia, si è potuto assistere all’ascesa della prima coalizione populista, una definizione rivendicata dallo stesso premier Giuseppe Conte. “Io sono populista”, ha detto lo scorso ottobre davanti alla platea della scuola di formazione politica della Lega, sottolineando l’attenzione del nuovo governo verso le persone e i loro bisogni.
La Lega e il Movimento 5 Stelle, nel nostro Paese, rappresentano appieno i valori del populismo aiutandosi in questo senso con i social network, il nuovo megafono utilizzato (verrebbe da dire tradizionalmente) nei comizi politici. Una continua campagna elettorale, senza filtri e amplificata è stata l’arma vincente di Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio. Grazie a un sapiente uso dei social e a una strategia comunicativa rivolta a un pubblico più ampio possibile e che non ha eguali nel panorama internazionale, Matteo Salvini ha aumentato il proprio bacino di utenza, abbandonando il carattere locale da cui è nata la Lega, per accentuare quello nazionalista, sovranista, in contrasto dichiarato con le elité europee. Il leader del Carroccio condivide qualsiasi aspetto della sua vita, dal “pane e Nutella” che mangia al mattino, fino all’arancino gustato in Sicilia. È come se fosse all’interno di un reality show 24 ore su 24 in Rete. Perché non dovremmo fidarci di “uno di noi”, che “mangia come noi”, “veste come noi”, “parla come noi” e con noi, saltando quell’intermediazione che i social hanno difatti annullato?
Un’analisi sui comportamenti social di Matteo Salvini la possiamo osservare in modo emblematico nei tre giorni “di fuoco” (dal 25 al 27 giugno), sia dal punto di vista climatico che di dibattito politico. Giorni in cui Carola Rackete, la capitana della nave Sea Watch che trasporta 40 migranti, ha fatto rotta su Lampedusa e ha attraccato in porto forzando il blocco. In quelle ore l’attività social del leader della Lega si è assestata su numeri spaventosi.
Di questi, 28 post tra Instagram e Facebook e 51 su Twitter riguardano l’argomento Sea Watch. Condivisioni in cui le parole pesano come macigni, ma che fidelizzano ancora di più l’elettorato. In una diretta Facebook Salvini chiama Carola Rackete “sbruffoncella che fa politica sulla pelle degli immigrati”, abbassando così il suo linguaggio, mai stato istituzionale, a chiacchiere da bar.
“Solo tu mi dai la forza di alzarmi la mattina con la speranza che l’Italia possa cambiare. Capitano aiutaci!”, scrive un utente sotto al post. «Facebook pensa e sa che ciò che stai leggendo deve scatenare una reazione», sottolinea Mauro Munafò, caposervizio de L’Espresso. «La politica di Salvini si fonda tutta sul dualismo – continua Munafò – perché ha spostato il focus sull’immigrazione e sull’Europa, unificando gli italiani. La semplificazione del suo linguaggio è alla base del successo dei populisti. C’è sempre un “noi” contro di “loro”, una contrapposizione basata sul buono e cattivo». Ne sono passati di anni dal primo raduno a Pontida, ma la strategia e il registro non sono cambiati. Si parla sempre alla pancia, ma di tre milioni di follower: «Il linguaggio vero e proprio è ridotto e brutale – spiega Stefano Rolando, docente di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università IULM di Milano – mirato in tutto e per tutto all’esplosione della reazione da parte degli utenti». Questi ultimi sono stanchi dei discorsi di quei vecchi politici che il Capitano si è ripromesso di “rottamare”, prendendo in prestito la tecnica di un altro Matteo, che prima di lui aveva capito come ottenere il consenso. In comune con Renzi, Salvini non ha solo il fatto di presentarsi come leader anti-establishment, ma l’abilità nell’utilizzo del mezzo televisivo (entrambi esordiscono giovanissimi in tv, il primo alla Ruota della fortuna, l’altro a Il pranzo è servito) e un abbigliamento che diventa tratto distintivo, dalla felpa salviniana, alla camicia bianca di Renzi. E se è vero che la tradizione è sempre un’invenzione, in politica si conferma una verità tutta italiana di “gattopardiana” memoria: affinché tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Dalla canottiera di Umberto Bossi, tormentone degli anni Novanta, simbolo della classe operaia e del contadino, dovremo attendere vent’anni per il cambio dell’armadio leghista. Impacchettati insieme alla naftalina i calzoni da lavoratore, le giacche carnevalesche e le cravatte verde secessione del Senatùr è tempo di rispolverare i maglioni per il rigido e buio inverno che l’Italia sta attraversando. Così è arrivata la felpa e fu subito Salvini. Il vicepresidente del Consiglio non ha fatto altro che portare avanti un modo di vestire, ri-adattandolo ai tempi che corrono, di cui Bossi ha il merito originario. Visto che lo stile è una scelta, la dichiarazione degli esponenti della Lega è chiara sin dall’inizio: noi siamo il popolo, chi ci vota sta votando per il popolo.
Il linguaggio e le tecniche di comunicazione non verbale non sono poi cambiate così tanto, il medium, invece, ha rivoluzionato tutto. Come era già avvenuto in tempi meno sospetti, o forse più ingenui, per la tv, come spiegato dal sociologo Edoardo Novelli:
Proprio perché scritto in modo diretto sui social con limiti ben precisi, il linguaggio politico dei populisti si basa sul fatto che la complessità del reale venga ridotta a uno slogan. Ed è questo il punto focale che sprigiona il lessico della Lega e del suo leader: linguaggi brevi che colpiscono e fanno colpo sul potenziale elettore. «Si tratta di una modalità che tende a soddisfare i bisogni di primari dell’uomo, in questo caso la sicurezza», spiega Alberto Contri, docente di Comunicazione Sociale all’Università IULM di Milano. «Ricorda quasi la piramide di Maslow che gerarchizza bisogni e necessità dell’individuo dove si scatena un’accusa nei confronti dell’immigrato, visto come pericolo e usurpatore della patria e del lavoro», conclude.
Anche i mezzi di informazione si sono adeguati a questo tipo di linguaggio, schierandosi totalmente a favore o contro Salvini, polarizzando di fatto l’elettorato dei lettori. “Forza Capitana” apre Repubblica sul caso Sea Watch. Immediata la risposta in prima pagina del Giornale di Alessandro Sallusti: “Forza Capitano”. Questo genere di atteggiamento si traduce in ulteriori voti e consensi per la Lega. Esattamente come è accaduto per la sparatoria a Macerata a un mese dalle elezioni politiche del 2018. L’uomo che ha premuto il grilletto contro alcuni immigrati era candidato l’anno prima con la Lega per le comunali. Questo episodio, a pochissimi giorni dal voto, avrebbe presupposto un risultato negativo di Salvini alle elezioni, complice la rilevanza mediatica avuta. Il corpo elettorale, invece, ha reagito in modo totalmente opposto sottolineando la volubilità del consenso, tipica del populismo. Sembra che i giornali abbiano perso la primordiale facoltà di approfondimento e analisi, assecondando il nuovo lettore popolare e adattandosi a un linguaggio urlato, twittato, vuoto, presto dimenticato. Un racconto informativo che si è adeguato alla spettacolarizzazione del discorso politico perdendo di vista la sua prerogativa, quella di scandagliare le notizie, sviscerarle analizzandole.
«La spettacolarizzazione in politica è sempre stata un modo per creare attenzione – chiarisce Michele Sorice, docente di Democrazia deliberativa e nuove tecnologie e di Sociologia della comunicazione nel corso di Scienze politiche della Luiss, nel libro Il metodo Salvini di Domenico Ferrara e Francesco Maria Del Vigo – Oggi con il linguaggio del corpo si cerca di creare interesse e sensibilità e magari simpatia». Il leader della Lega fa ampio uso del linguaggio non verbale con il quale lancia dei messaggi, come ad esempio attraverso il suo abbigliamento. Ce lo ha raccontato Mauro Munafò:
Premier carabiniere, premier vigile del fuoco, con la t-shirt o col bomberino, il leader del Carroccio si veste come i suoi elettori, senza dettare loro un’agenda, ma seguendo gli argomenti di tendenza di cui parlano su Internet. Dalla protesta verso questa forma di politica populista che racconta quello che i cittadini vogliono sentirsi dire, anziché risolvere i problemi della società nasce il gioco online Salvinification, il cui fondatore non è stato capace di ideare l’unico vestito che Matteo Salvini avrebbe dovuto indossare: quello di vicepresidente del Consiglio.