Oggi, 25 novembre, si celebra la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Sul tema è intervenuta Elisabetta Canevini, giudice penale in magistratura dal 1991 e dal 2012 in servizio nella IX sezione del Tribunale di Milano, specializzata nei reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e atti persecutori.

Quanto tempo passa tra la prima denuncia e l’adozione di una misura protettiva più efficace?
L’intervento, che richiede una misura, viene individuato subito e la polizia giudiziaria può, nei casi di violenza, allontanare dall’abitazione l’autore di reato. Poi all’autorità giudiziaria vengono sottoposti i motivi e le circostanze dell’intervento, che viene convalidato o meno. Se ci sono i presupposti, su quell’allontanamento si costruisce una misura cautelare più stabile. Altrettanto può fare il giudice civile, nel caso di una separazione problematica, che ha portato la donna a subire violenze. In ogni caso, se non ci sono interventi immediati o addirittura un arresto in flagranza, il Pubblico Ministero può richiedere l’emissione di una misura cautelare al Giudice per le indagini preliminari, che adesso deve provvedere entro 20 giorni al massimo.
Il tempo di intervento cambia a seconda del caso?
C’è una forte pressione efficientista. Il problema è che quando tutto è urgente, si fatica a distinguere tra ciò che richiede un intervento immediato per la tutela dell’incolumità fisica della vittima e un intervento che deve essere preso in considerazione, anche se non è pericoloso per la vita della persona. Bisogna correre per tutto e le nostre risorse sono sempre più scarse: abbiamo una scopertura di organico intorno al 20% dei magistrati in tribunale e oltre il 40% del personale amministrativo. Lavoriamo sempre in una situazione di emergenza cercando di tappare buchi e siamo completamente privi di risorse.
Quali sono le misure di protezione?
Il codice di procedura penale ne prevede parecchie e si cerca di costruire il sistema di protezione più efficace per il caso concreto. Per esempio: l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, il divieto o l’obbligo di dimora in un certo comune con divieto di allontanarsi senza l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di comunicazione e avvicinamento rispetto alle persone offese. In questo caso si ha l’obbligo di applicazione del braccialetto elettronico. Altre misure sono gli arresti domiciliari con o senza braccialetto elettronico e la custodia cautelare in carcere fino al processo. Quest’ultima è la più restrittiva. Le violazioni degli obblighi imposti con queste misure cautelari costituiscono ulteriore reato, per cui c’è un doppio sistema di controllo.
A proposito del braccialetto elettronico, recentemente una donna è stata uccisa dal compagno che aveva questo strumento, che però non è servito. Perché il dispositivo a volte non funziona?

Ce ne sono troppo pochi a disposizione e bisogna aspettare che siano disponibili prima di applicarlo: in questo sta a noi, all’autorità giudiziaria, chiarire cosa bisogna fare nell’attesa, cioè se si possono introdurre delle misure cautelari parallele. Ci sono degli obblighi per l’imputato anche relativi alla manutenzione e al corretto utilizzo del braccialetto elettronico. Primo tra tutti il mantenerlo in carica, perché se è scarico può suonare in modo sbagliato o non suonare quando dovrebbe. Sono problemi tecnici che ogni tanto si riscontrano. Però, ci tengo a dire che il braccialetto elettronico continua ad essere, per fortuna, uno strumento indispensabile per la tutela delle vittime, anche se il suo uso deve essere migliorato e perfezionato. E soprattutto ce ne vogliono di più.
Gli agenti non devono monitorare periodicamente il corretto funzionamento del braccialetto?
No, non è un loro compito. La manutenzione spetta alla società che li distribuisce, ovvero la Fastweb. Gli operanti che hanno in carico il soggetto devono poi occuparsi di fare da tramite tra l’imputato e la società, che fa l’installazione e la manutenzione. L’imputato deve offrire la massima disponibilità e la massima collaborazione per questa attività. I carabinieri e la polizia non si possono occupare di andare periodicamente a vedere come funziona un braccialetto elettronico, perché c’è una scarsità di risorse che vanno concentrate in altri servizi.
Se questa è la situazione, le donne come possono fidarsi delle istituzioni?
Negli ultimi 14 anni sono stati fatti passi da gigante. Riporre fiducia nelle istituzioni è la prima cosa da fare. Su tutto il territorio è dispiegata una rete di professionisti in grado di riconoscere il pericolo, di gestirlo e di ascoltare le vittime, per capire quali sono i loro bisogni specifici. Le istituzioni fanno tanto: abbiamo una serie di strumenti di intervento, anche immediato, a tutela delle persone offese. Da qui a fare tutto perfettamente ce ne passa, però si sono fatti dei grandissimi passi in avanti.
Qual è l’elemento fondamentale nei casi di violenza o abusi?
La denuncia. Quello che mi sento sempre di dire alle persone offese è che da queste situazioni non si esce da soli. Bisogna essere aiutate a riconoscerle e farsi aiutare per uscirne, perché è un percorso che va fatto. E ci sono i modi per farlo: le istituzioni ci sono, c’è sempre più personale competente e specializzato.
Perché molte donne non denunciano?
I motivi sono tanti. Prima di tutto il vivere in una condizione di controllo violento. Infatti, molto spesso c’è una minaccia dietro alla non denuncia: “Se denunci ti ammazzo”, “Se denunci ti brucio con l’acido”, “Se denunci faccio sparire i tuoi figli”. Sono frasi che sentiamo quotidianamente. Un altro motivo è la convinzione che le cose possano cambiare, perché c’è un basso riconoscimento del tasso di rischio a cui si è esposti.
Questo lo spiega la psicologia: quando una donna aderisce alla rete antiviolenza, si fa una valutazione del rischio con un’apposita procedura. Si parla di rischio per la propria incolumità o per quella delle persone a lei vicine. Molte vittime hanno una bassa percezione del rischio effettivo. Col tempo si abituano, quindi posticipano la denuncia. Un ultimo motivo è la convinzione di poter rovinare una famiglia, quando invece per i figli è nocivo essere esposti a dinamiche di violenza interna.
Continuando a parlare di denuncia, Pamela Genini non aveva denunciato Soncin, ma aveva scritto sul foglio compilato in ospedale che era certa che lui l’avrebbe potuta uccidere. In questo caso, non si poteva intervenire lo stesso?

In ospedale abbiamo un sistema sanitario pronto a individuare i punti di pericolo, però non è lo stesso che andare dai carabinieri. Per mettere in piedi un servizio che riconosca il pericolo anche in quella sede c’è molta attenzione ed è stato fatto molto in questi anni. Tuttavia, c’è ancora tanto da fare obiettivamente. Abbiamo spesso segnalazioni che arrivano dall’autorità sanitaria, dalle scuole e dai vicini di casa: non bisogna avere timore o pensare di sbagliare a segnalare, però a volte può capitare che non si riconosca una situazione di oggettivo pericolo e le forze dell’ordine sono la strada maestra.
Cosa manca concretamente per evitare che un caso già noto alle istituzioni di violenza e di abusi degeneri poi in un femminicidio?
C’è un grosso problema culturale: mentre si continua a pensare che sia una colpa delle donne, si dovrebbe capire che è un problema degli uomini, che dovrebbero fare una grossa riflessione su cosa hanno in testa e come sono stati educati nella relazione affettiva. Nelle aule di tribunale si sentono ancora fare delle domande, come se sia la vittima a doversi giustificare delle proprie condotte e non l’autore di queste violenze a dover assumere consapevolezza della gravità delle stesse. Questo è un lavoro che va fatto nelle sedi istituzionali e dell’educazione. Dal punto di vista dell’attività giudiziaria avremmo bisogno di poter lavorare più velocemente, però vuol dire avere più risorse.
Di che risorse si dispone attualmente?
Nel tribunale di Milano abbiamo sezioni specializzate nella trattazione della materia “attività alla violenza di genere”. Abbiamo attività di formazione costante e un servizio di accoglienza per le vittime vulnerabili, quindi garantiamo che la vittima non incontri l’imputato nel corso del processo e che possa essere ascoltata in modo protetto. Abbiamo luoghi predisposti per la tutela delle donne e nei tribunali, dove questo tipo di specializzazione non si riesce a fare, c’è un obbligo di formazione del personale. Cerchiamo con la specializzazione e la formazione di garantire un approccio sempre più consapevole del rischio che stiamo maneggiando e della delicatezza della sofferenza di chi ha subito condotte di questo tipo, che merita il massimo rispetto, indipendentemente dal tenore della decisione.
L’educazione all’affettività nelle scuole può essere un mezzo per prevenire la violenza e poi il successivo caso di femminicidio?
Io sono convinta di sì. Per tutto quello che ho visto in questi anni è evidente che i mattoni della capacità relazionale e affettiva si costruiscono nei primissimi anni d’età, poi si mantengono con la consapevolezza, con l’educazione e l’abitudine a trattare i propri pari con rispetto. Purtroppo, siamo ben lontani da avere uno standard medio accettabile su questo piano, lo vediamo con i comportamenti anche dei diciottenni. Per questo mi sento di dire che la preoccupazione deve essere alta. Si tratta di reati che si sviluppano e maturano nel contesto familiare e relazionale, non si può delegare alla sola famiglia la soluzione. Bisogna creare delle figure educative di riferimento esterne alla famiglia e penso che la scuola sia fondamentale.