L'anniversario della Conferenza internazionale

Cinquant’anni dagli Accordi di Helsinki: un modello di diplomazia per un mondo in conflitto

In piena Guerra fredda, trentacinque Stati si riunirono per parlare di pace, sicurezza e cooperazione internazionale

Il 1° agosto 1975 la firma degli Accordi di Helsinki chiudeva, dopo due anni, i lavori di una Conferenza che aveva riunito nella capitale finlandese i rappresentanti di trentacinque Stati, tra cui figuravano Stati Uniti, Russia e molti Paesi europei. Sul tavolo temi di pace, sicurezza e cooperazione, ma soprattutto la speranza di proseguire lungo il cammino della “distensione”. In pieno clima di Guerra fredda, infatti, si percepiva l’urgenza – soprattutto in area occidentale – di un dialogo con il blocco opposto, ma i tempi e i modi di questo incontro non erano affatto scontati.

La scelta del luogo

Per quanto condizionata nelle proprie scelte politiche dalla confinante Unione Sovietica (è il fenomeno della cosiddetta “finlandizzazione”), la Finlandia era formalmente un Paese neutrale, che non aveva aderito alla Nato, ma neanche al Patto di Varsavia. Per questa ragione fu individuata nel 1973 come una soluzione di compromesso, che incoraggiasse la partecipazione dell’URSS senza risultare troppo ostica per i Paesi alleati degli Stati Uniti. Una condizione analoga, peraltro, era quella della Svizzera, che ospitò a Ginevra tra il 1973 e il 1975 una seconda fase della Conferenza, prima che il cerchio fosse chiuso là dove tutto era iniziato.

In un’atmosfera gravata dalla paura di una guerra atomica, la Conferenza rappresentò, prima ancora di cominciare, un momento di distensione. D’altra parte, ancora oggi, la Guerra fredda è un periodo storico da ricordare e studiare per i suoi episodi più critici, quelli venati da una insopprimibile competizione o sempre sull’orlo della catastrofe: la guerra in Corea, la crisi missilistica di Cuba, il Muro di Berlino, la corsa allo spazio, le tensioni in Medio Oriente e i dilemmi di tutti quei Paesi che, all’atto di ottenere l’indipendenza, si trovavano a dover scegliere da quale parte del mondo schierarsi.

La stessa cesura attraversava il Vecchio Continente, dove la cortina di ferro separava due blocchi inconciliabili. In questo contesto, il timore di una potenziale escalation e il desiderio di un assetto globale più stabile e credibile radunarono alla “Casa Finlandia” di Helsinki trentacinque leader. Stati Uniti e Canada da una parte, Russia dall’altra, e in mezzo, non solo geograficamente, quasi tutta l’Europa, compresi Germania Est e Ovest, Svizzera, San Marino, la Santa Sede e la Jugoslavia.

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Opera dell’architetto Alvar Aalto, la “Finland Hall” ospitò i lavori della Conferenza
Gli obiettivi dei partecipanti

I Paesi coinvolti nutrivano interessi contrastanti. Gli Stati Uniti puntavano a mantenere l’influenza sui Paesi della Nato e a estenderla in quelle regioni strategicamente importanti per l’approvvigionamento energetico. L’URSS aveva bisogno di espandere l’ideologia comunista, consolidare il controllo sull’Europa orientale e mantenersi competitiva con gli USA sul piano militare e tecnologico. Infine, i Paesi europei, divisi tra Est e Ovest, cercavano – rispettivamente – di guadagnarsi un margine di libertà rispetto all’egemonia del Partito comunista, e di raggiungere una stabilità economica, resa ancora più urgente dopo lo shock petrolifero del ’73.

Una situazione così variegata rischiava di condurre a un nulla di fatto, ma il documento finale si rivelò in una certa misura sorprendente. In capo a una lunga serie di disposizioni dedicate alla cooperazione, alla sicurezza e ai rapporti commerciali tra i firmatari, gli Stati partecipanti sottoscrissero dieci principi di «importanza fondamentale», non vincolanti, ma comunque segno di un impegno preso di fronte alla comunità internazionale.

I dieci principi

In maniera coerente con quelle che erano le ansie del periodo, i primi quattro principi invitavano al rispetto della sovranità nazionale, diffidavano dal ricorso alla forza nelle relazioni internazionali, sancivano l’inviolabilità delle frontiere e l’integrità territoriale degli Stati. In quelli a seguire si auspicava una composizione pacifica delle controversie e l’astensione dall’intervento negli affari interni degli altri Paesi. Il settimo e l’ottavo principio sancivano il rispetto del cittadino, nella sua dimensione individuale con riferimento ai diritti dell’uomo e alle libertà fondamentali, e nella sua dimensione di popolo con diritto all’autodeterminazione.

Gli ultimi due principi chiudevano con impegni ancora più concreti. Il primo rivolto al futuro, in direzione di una cooperazione reciproca fra gli Stati, l’altro a partire dal momento presente: «Gli Stati partecipanti adempiono in buona fede i loro obblighi di diritto internazionale, sia quelli derivanti dai principi e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciuti, sia quelli derivanti dai trattati e altri accordi, conformi al diritto internazionale, di cui essi sono parti».

Poco più in basso nel testo, un riferimento esplicito allo Statuto delle Nazioni Unite, richiamava ai firmatari la “vigilanza” dell’organo sovranazionale per eccellenza, rappresentato a Helsinki dal Segretario generale Kurt Waldheim, che in qualità di “ospite d’onore” (dunque senza diritto di firma) tenne il discorso d’apertura.

La soddisfazione di Usa e Urss

La Conferenza di Helsinki ebbe effetti immediati e conseguenze di medio-lungo termine. L’Unione Sovietica di Leonid Breznev ne uscì soddisfatta per quella che considerava una vittoria diplomatica, ovvero il riconoscimento delle frontiere europee post-belliche, destinate a rimanere inalterate fino alla caduta del Muro di Berlino.

Il presidente americano Gerald Ford (a sinistra) con il leader russo Leonid Breznev

D’altra parte, l’Occidente poteva rallegrarsi per il fatto di aver promosso i diritti umani oltre la cortina di ferro, sebbene internamente ai Paesi del blocco non mancassero voci di aperto cinismo. Il presidente statunitense Gerald Ford, per esempio, pur avendo osservato – nel suo discorso del 1° agosto – che nel corso della Conferenza si era lavorato «costruendo sui legami tradizionali che ci uniscono agli amici di lunga data e cercando di forgiare nuovi legami con ex e potenziali avversari», in una circostanza precedente si era espresso in toni ben più pragmatici: «Se tutto fallisce, l’Europa non sarà peggio di quanto non sia ora».

Le reazioni della stampa italiana: tra approvazione…
Aldo Moro rappresentò l’Italia a Helsinki durante il suo quarto governo (1974-1976) e come ministro degli Esteri nei due precedenti governi Rumor (1973-1974)

Anche in Italia le posizioni intorno agli Accordi furono eterogenee. Per tutta la durata della Conferenza l’area cristiano-democratica aveva manifestato ottimismo, motivato probabilmente dalla provenienza democristiana del principale rappresentante del nostro Paese in Finlandia, il Presidente del Consiglio Aldo Moro (in quel periodo anche Ministro degli Esteri ad interim).

Allo stesso modo, gran parte della stampa sostenne una posizione favorevole. Il quotidiano cattolico Avvenire vedeva in Helsinki la prova che l’Europa non era una semplice ripartizione geografica, ma svolgeva un «ruolo vitale di equilibrio», pur riconoscendo che c’era ancora molto lavoro da fare. In area socialista, il quotidiano Avanti! parlava a sua volta di «un’opportunità per l’Europa» e auspicava una «interpretazione dinamica della distensione», sottolineando come Washington avesse scelto la via del dialogo con Mosca.

Analoga lettura venne fatta sul fronte comunista, che indicò la Conferenza come il corollario dei progressi nella distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ovviamente interpretati come un successo della politica post-stalinista di Mosca.

… e sfiducia

A mostrare maggior scetticismo fu l’area laica (sia liberale che progressista), meno incline a credere in una scena internazionale più cooperante. Giornali come Il Messaggero e La Nazione osservavano che la Conferenza avrebbe avuto come effetto la semplice conservazione dello status quo, mentre il Corriere della Sera si limitò a raccontare ai propri lettori lo svolgersi degli eventi senza prendere posizioni.

La Stampa di Torino, pur rilevando come ci fosse in gioco una battaglia ideologica tra un fronte conservatore e reazionario e uno più dinamico e progressista (giudicato peraltro più sperimentale), scelse di schierarsi con il primo, attaccandosi all’idea di un’Europa occidentale sovrana e in grado di provvedere autonomamente alla propria difesa.

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Una pagina del quotidiano La Stampa dedicata alla Conferenza in corso a Helsinki

Più radicali le posizioni del Movimento Sociale Italiano, che riteneva che l’Occidente si stesse piegando troppo alle richieste sovietiche, e della destra conservatrice, che sul giornale Il Borghese, squalificò il valore della Conferenza, scrivendo: «La distensione è armata. Le pacche amichevoli sulle spalle sono il privilegio di chi siede su cumuli di bombe atomiche della stessa altezza. Ormai, perfino gli ottusi hanno capito, con legittima delusione, che la distensione serve solo a rafforzare la schiavitù a Est».

Il mondo dopo Helsinki

Al di là dell’accoglienza nei singoli Paesi, il risultato più concreto degli Accordi fu la creazione di un organo deputato a mantenere e promuovere i principi sanciti a Helsinki. L’OSCE (Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione in Europa) nacque proprio con questa missione, da compiersi, come si evince dal nome, su suolo europeo. Tuttavia, dopo la dissoluzione dell’URSS, l’OSCE ha ampliato le sue operazioni e oggi conta cinquantasette Stati membri e altri undici in qualità di partner nella cooperazione.

All’incontro di Helsinki ne fecero seguito degli altri, il più importante dei quali fu nel 1990: all’indomani della caduta del comunismo in Europa, la “Carta di Parigi per una nuova Europa” rappresentò il tentativo di gestire un assetto nuovo e potenzialmente latore di scontri inediti.

A cinquant’anni di distanza dagli Accordi di Helsinki, il mondo è ancora fortemente segnato da conflitti e tensioni internazionali. Che si tratti di recrudescenze o di nuove insorgenze, tutto lascia pensare che gli interessi che muovono le grandi potenze siano però gli stessi. La differenza rispetto al biennio 1973-1975 sta forse più nell’atteggiamento: oggi si guarda con sfiducia alla possibilità di un dialogo multilaterale che metta a tema la sicurezza umana e la pace.

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