Stop al controllo sulle fake news di Meta. Puente: «La vera censura la fanno gli algoritmi, non noi fact-checkers. Zuckerberg dovrebbe saperlo»

Il 7 gennaio il capo di Meta Mark Zuckerberg ha annunciato che negli Stati Uniti i contenuti pubblicati sui social network della sua società, Facebook e Instagram, non saranno più sottoposti a un servizio di fact-checking. David Puente, giornalista e fact-checker del giornale online Open, spiega quali potranno essere le conseguenze di questa decisione e come funziona il mondo del fact-checking applicato alle piattaforme.

Come avete preso l’annuncio di Zuckerberg a Open?

Ciò che ci è dispiaciuto maggiormente è il modo in cui Zuckerberg ha comunicato la decisione, facendo intendere che i fact-checkers applicassero un’attività censoria e di parte alcuna. In merito alla prima, a censurare è sempre stata Meta con i suoi algoritmi, mentre il programma fact-checking non è mai stato concepito e gestito in questo modo, e dovrebbe saperlo dopo così tanto tempo. Per la censura di Meta, anche io sono stato vittima dei loro errori e ho tutte le comunicazioni dove mi chiedono scusa.

E riguardo all’essere di parte?

Riguardo a questa questione, invece, Zuckerberg non ha mai fatto un esempio o citato un fact-checker che abbia violato il codice etico, sia di Meta che dell’IFCN (il network internazionale dei fact-checkers) che obbliga tutti noi membri certificati a rispettare. In tutti questi anni non abbiamo mai ricevuto una contestazione da Meta, al contrario il nostro lavoro è sempre stato elogiato e riconosciuto di anno in anno rinnovando la collaborazione.

 

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Secondo alcuni, la vittoria di Trump ha messo in discussione l’utilità del fact-checking. Cosa ne pensa?

Dico questo: se Trump o i candidati pubblicavano dai loro profili una fake news noi avevamo le mani legate, proprio perché Meta non ci permetteva di intervenire sui contenuti da loro pubblicati. Il nostro lavoro con Meta è limitato agli altri utenti e ai contenuti virali.

Ma allora a cosa serve il fact-checking?

Il fact-checking non è una soluzione per arginare l’intero fenomeno, chiaramente. Se poi hai delle limitazioni e il fact-checking non viene proposto adeguatamente dalle piattaforme, è come svuotare il mare con un cucchiaino bucato. Diverse volte (l’ultima a dicembre) mi è capitato di venire bloccato per errore da Facebook con l’accusa di promuovere truffe, dopo aver verificato una truffa e pubblicato il fact-check. Allora, come può il fact-checking avere una buona visibilità per aiutare gli utenti?

Quali tipi di contenuti falsi sono più diffusi?

Perlopiù sono le immagini, anche se anche i reel fanno parecchi danni. L’intelligenza artificiale, inoltre, genera ulteriori falsità: la gente casca ancora facilmente in fotomontaggi fatti in maniera vergognosa e grossolana.

Per quali argomenti il fact-checking funziona meglio?

Se l’argomento è di tendenza gli utenti ne parlano volentieri. A volte sono proprio banalità e gossip a interessare di più gli utenti, mentre su argomenti complessi tendono a lasciar perdere. Spesso lavoro ore per un fact-check, magari su un tema delicato come la guerra a Gaza, e poi mi accorgo che gli utenti leggono di più la bufala dei parassiti nelle patatine che hanno visto su TikTok.

 

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Quanti fact-check fate al mese a Open?

Ne facciamo in media 60 al mese, a volte molte cose le dobbiamo mettere da parte per mancanza di tempo.

Come funziona il vostro lavoro?

Operiamo principalmente su contenuti virali e che possano in qualche modo danneggiare le persone, ma a volte anche su quelli apparentemente innocenti, dietro ai quali potrebbero nascondersi insidie e raggiri. Inoltre, ci sono pagine “religiose” che sfruttano molto l’intelligenza artificiale con contenuti positivi ma falsi, per poi attirare gli utenti in attività losche. Spesso gli utenti si arrabbiano con noi e non con coloro, che li prendono in giro e sfruttano la loro credulità.

Quali sono le principali difficoltà in questa attività?

La difficoltà maggiore riguarda i pezzi dove dobbiamo contattare esperti, che a volte preferiscono non essere citati per timore di essere presi di mira.

C’è chi pensa che i fact-checker siano di parte. È così?

Ogni anno il nostro lavoro viene ri-verificato per ottenere la certificazione dell’IFCN. Tra i colleghi americani ci sono anche fact-checker appartenenti a organizzazioni conservatrici, vicine ai repubblicani, ma che rispettano i codici dei principi del fact-checking e che mantengono l’imparzialità. Per quanto mi riguarda, Open è una testata completamente indipendente e mi sono potuto occupare di tutto e di tutti, ricevendo critiche da realtà anche “nemiche” tra loro.

 

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Ha in mente degli esempi?

I pro Israele mi danno del filo palestinese o persino filo Hamas, i pro Palestina mi danno dell’ebreo e sionista. Questo perché smentisco le falsità che a loro fanno comodo per la propria propaganda. Anche per l’Ucraina, nonostante sostenga la causa di quest’ultima, ho smentito un sacco di bufale pro Kiev e alcuni influencer ucraini mi hanno dato del “figlio di Putin”. È il prezzo da pagare, e purtroppo gli estremisti non accettano questo modo di lavorare.

Domanda secca: la disinformazione è di destra?

Ma neanche per idea. Le falsità le dicono tutti, non esiste una fazione che detiene l’esclusiva.

Secondo lei, le piattaforme potranno essere la casa dell’informazione nei prossimi anni?

L’idea di affidarsi al sistema di X noto come Community notes è una vera sconfitta per l’informazione. Ci sono post su X contenenti bufale clamorose con milioni di visualizzazioni senza che le note della comunità vengano mostrate al pubblico. In questo modo, le falsità non verranno contrastate e avranno meno freni. Soprattutto se le presunte verità saranno decise per alzata di mano da utenti anonimi, senza alcuna forma di trasparenza su chi siano e da chi vengano finanziati.

 

Alessandro Dowlatshahi

Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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