Era un pomeriggio del 2005. Ann, insegnante di matematica di trent’anni, stava giocando a pallavolo con amici, quando all’improvviso fu colpita da un ictus al tronco encefalico che la lasciò quasi del tutto paralizzata. La giovane non poteva più muoversi né parlare e faticava persino a respirare. La sua vita sembrava irrimediabilmente compromessa. Ma diciassette anni dopo un team di ricercatori della University of California di San Francisco ha restituito ad Ann la capacità di comunicare. Merito di un’innovativa tecnologia di lettura della mente, che riesce a tradurre i pensieri in un testo con una precisione e una velocità senza precedenti. Si tratta di una griglia sottile e rettangolare di 253 elettrodi, impiantata dal neurochirurgo Edward Chang a contatto con la corteccia motoria della laringe dorsale, quella parte del cervello che controlla i muscoli coinvolti nella produzione di suoni.
Il caso di Ann
Mentre la donna tenta di pronunciare determinate parole, gli elettrodi registrano l’attività neurale, intercettando i segnali che, non fosse per l’ictus, stimolerebbero le labbra, la lingua, la laringe, la mandibola e il viso di Ann. Gli elettrodi inviano poi i dati a una serie di computer tramite un cavo inserito in una porta nella sua testa.
Per settimane la donna ha ripetuto frasi composte a partire da un vocabolario di 1024 parole, addestrando un algoritmo di machine learning a riconoscere i pattern di attività cerebrale associati ai fonemi, le sottounità del discorso che formano le parole pronunciate. Il sistema ha imparato a convertire i pensieri di Ann in un testo a una velocità di 78 parole per minuto. Utilizzando poi la registrazione del suo discorso di matrimonio, i ricercatori hanno programmato un avatar virtuale in grado di imitare le espressioni facciali e di parlare con la sua voce.
Il funzionamento delle BCI
Il dispositivo, di cui il team ha dato notizia con una pubblicazione su Nature del 23 agosto 2023, è solo una delle ultime frontiere delle tecnologie di lettura della mente. Il termine tecnico è “interfaccia neurale”, abbreviato dall’inglese in “BCI” (brain-computer interface). Quali che siano le forme e le applicazioni, il principio che ne regola il funzionamento è quasi sempre lo stesso: decine, centinaia o migliaia di elettrodi registrano l’attività cerebrale e inviano i dati a un computer, dove vengono interpretati da un algoritmo.
Alcune BCI sono “impiantabili”, possono cioè essere inserite sulla corteccia cerebrale e utilizzate per registrare l’attività di singoli neuroni. Altre, invece, sono meno invasive, perché non richiedono di essere impiantate all’interno del cranio tramite intervento chirurgico, e vengono perciò definite “indossabili”. Può trattarsi di caschetti appoggiati alla cute, ma anche di cuffie e auricolari, che registrano i segnali a livello di aree del cervello. Non essendo a contatto diretto con la corteccia, però, acquisiscono dati carichi di interferenze e dunque più difficili da interpretare.
Dalle funzioni motorie alla comunicazione
Il sistema si completa spesso con una forma di tecnologia esterna, che il computer riesce a muovere perché riconosce il segnale cerebrale che si produce quando il paziente immagina di muoverla. Il principale scopo di questi dispositivi è proprio il ripristino delle funzioni motorie nelle persone rimaste paralizzate in seguito a ictus o malattie degenerative come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Ad oggi, le BCI permettono di muovere un braccio protesico o una sedia a rotelle, controllare la televisione o un cursore sullo schermo di un computer, giocare ai videogiochi, suonare un pianoforte virtuale, usare un simulatore di guida. Tutto con la sola forza della mente.
Le BCI possono essere utilizzate, come nel caso di Ann, anche per leggere i pensieri, dunque per restituire la capacità di comunicare alle persone con paralisi o lesioni cerebrali. Ma esistono anche applicazioni molto diverse, ad esempio per indurre certi stati mentali che favoriscano la concentrazione, la produttività o il riposo. Ne è stata fatta dunque di strada dal 2004, quando venne impiantato in un essere umano il primo dispositivo invasivo a lungo termine. E Matt Nagle, rimasto paralizzato in seguito a una lesione al midollo spinale, imparò a controllare un braccio protesico.
Leggere nella mente
Quanto alla lettura del pensiero, un altro articolo di Nature, lo stesso giorno in cui veniva pubblicato lo studio su Ann, riferiva di un’altra BCI invasiva. In questo caso il soggetto era Pat Bennett, una donna di 67 anni affetta da SLA. Il team coordinato da Frank Willett della Stanford University della California le ha chiesto di provare a pronunciare diverse espressioni contenute in un vocabolario di 125 mila parole e in uno di sole 50. Col tempo, l’IA ha imparato a tradurre i pensieri in un testo, digitando 62 parole al minuto con un tasso di errore del 23.8% per il primo vocabolario e del 9.1% per il secondo.
Uno studio innovativo è quello coordinato dal neuroscienziato Alexander Huth dell’University of Texas e pubblicato su Nature il 1° maggio 2023: è il primo caso di lettura dei pensieri umani tramite un metodo non invasivo. Si tratta della risonanza magnetica funzionale, una tecnica di misurazione dell’attività neurale in base ai cambiamenti nel flusso sanguigno all’interno del cervello. In particolare, tre volontari sono rimasti sedici ore ciascuno in uno scanner, ascoltando podcast. Con questi dati, i ricercatori hanno costruito delle mappe mentali che mostrano per ciascun soggetto quali aree si attivano quando sente una certa espressione. Il team ha addestrato il sistema a tradurre l’attività cerebrale in un testo usando Gpt-1, un modello linguistico di grandi dimensioni precursore di ChatGpt.
Gli stessi partecipanti sono stati scansionati mentre ascoltavano una nuova storia o immaginavano di raccontarne una. Circa la metà delle volte il testo riusciva a riprodurre – seppur non le esatte parole – il concetto o l’idea generale del discorso. I partecipanti erano comunque in grado di alterare il processo, pensando ad altro. E il dispositivo faticava a decifrare alcuni aspetti, come i pronomi, la prima e la terza persona, il maschile e il femminile. Ma si trattava di un grande passo avanti per una tecnologia non invasiva.
Le compagnie
La vera rivoluzione avverrà solo quando le BCI saranno disponibili sul mercato in larga scala e a prezzi accessibili. Diverse compagnie stanno perseguendo la via della commercializzazione: quelle più avanti sono cinque colossi statunitensi. A partire da Blackrock Neurotech, il cui primo impianto risale al 2004. La società ha progettato griglie di migliaia di elettrodi in grado di registrare da singoli neuroni. Ad oggi, è una delle più vicine all’approvazione della Food and Drug Administration, l’ente statunitense che regolamenta i prodotti alimentari e farmaceutici.
Se Paradromics ha sviluppato dispositivi simili, due compagnie hanno invece optato per una tecnologia meno invasiva. Si tratta di Precision Neuroscience e Synchron. Quest’ultima ha progettato lo “stentrode”, un array di sedici elettrodi che passa attraverso i vasi sanguigni – come uno stent – finché non arriva in corrispondenza della corteccia motoria, la regione deputata al movimento. Già impiantati in pazienti umani, gli stentrode mancano della precisione delle BCI più invasive, ma consentono di controllare un tablet o uno smartphone.
A queste si è poi aggiunta Neuralink, fondata nel 2016 dall’imprenditore multimiliardario Elon Musk. I suoi “threads” – elettrodi sottili e flessibili – possono essere impiantati più in profondità nella corteccia e sono ideati per ridurre il rischio di infezione. Come le BCI di Synchron, non sono collegati ai computer tramite cavo: una novità per un dispositivo che registra da singoli neuroni. Conclusi i test sulle scimmie, nel settembre 2023 Neuralink ha aperto le candidature per offrirsi come volontari nei test sugli esseri umani. Nel gennaio 2024 ha eseguito il primo impianto in una persona.
I limiti alla commercializzazione
Nonostante il crescente interesse e i maggiori investimenti, il percorso verso la commercializzazione è ancora agli inizi. La sperimentazione è limitata a singole sessioni e quasi tutti i partecipanti hanno bisogno di essere costantemente collegati via cavo ai computer e supervisionati dai ricercatori. I dispositivi rimangono costosi e devono essere calibrati su ogni utilizzatore. E le persone con una BCI invasiva a lungo termine sono appena una cinquantina, mentre i laboratori che conducono tali ricerche sono poco più di dieci. Ne manca dunque di strada prima che questa tecnologia riesca a migliorare la vita quotidiana delle persone che hanno perso la capacità di comunicare, garantendo un utilizzo autonomo e continuo.
Sicurezza e privacy
La diffusione delle BCI deve poi fare i conti con le questioni etiche e con una serie di rischi, a partire dalla sicurezza. Ci si chiede, infatti, cosa accadrebbe se il dispositivo dovesse rompersi o venisse hackerato, oppure in caso di chiusura di un’azienda che ha impiantato delle BCI.
Ancora più spinose le problematiche di privacy, considerando che questi sensori sono un canale di accesso all’organo che genera l’identità. E i pensieri sono quanto di più privato esista nella vita di un individuo. Un timore è che i dati cerebrali, registrati e conservati da ricercatori e compagnie, possano essere rubati o venduti sul mercato. Per non parlare poi dell’utilizzo in un’ottica di sorveglianza e controllo: in Cina alcuni dispositivi vengono già impiegati per monitorare l’attenzione degli scolari, mentre in altri Paesi vengono usati per rilevare la concentrazione dei dipendenti.
Un nuovo diritto internazionale
Per questo, alcuni ricercatori chiedono un aggiornamento dei trattati sui diritti umani per includere una qualche forma di protezione dal rischio di manipolazione del comportamento e della mente degli individui. La filosofa Nita Farahany della Duke University di Durham parla ad esempio di “libertà cognitiva”, mentre Rafael Yuste, neuroscienziato della Columbia University di New York, invoca i “neurodiritti”.
Al momento il Cile è l’unico Paese ad aver varato una legislazione sul tema, cambiando la Costituzione nel 2021. Fatto sta che esiste un vuoto normativo che deve essere colmato, per proteggere dai rischi di una tecnologia che – se implementata in maniera sicura – promette di riallacciare il dialogo interrotto tra mente e corpo. Rivoluzionando il futuro dell’umanità.