Jan Palach, la “torcia umana” che 50 anni fa si sacrificò per la libertà

Il 19 gennaio 1969, dopo tre giorni di agonia, moriva Jan Palach. Vent’anni, studente di filosofia all’Università Carlo IV di Praga, era divenuto da tre giorni il simbolo di una città in fermento – ma schiacciata dai carri armati sovietici – per via del suo gesto tanto coraggioso quanto estremo. Il 16 gennaio, infatti, si era cosparso di benzina e si era dato fuoco in piazza San Venceslao, il centro della capitale cecoslovacca.

Studenti cecoslovacchi protestano sopra i carri armati sovietici

Una scelta estrema per dare un segnale alla nazione. Jan Palach nacque nel 1948 (11 agosto), in una fase nella quale per il suo Paese stava cambiando tutto. Era l’anno del colpo di stato dei comunisti di Gottwad che salirono al governo sotto la minaccia staliniana e che resero la Cecoslovacchia parte del blocco orientale, controllato dall’Unione Sovietica. Praga era in una posizione nevralgica nello scacchiere europeo, stava vivendo un periodo di importante crescita economica, soprattutto dal punto di vista industriale, e Stalin premeva molto per averla sotto la propria influenza. Nel 1955 la Cecoslovacchia aderì poi al Patto di Varsavia e nel 1960 venne firmata la nuova Costituzione, che prevedeva un nuovo nome per la nazione: Repubblica Socialista Cecoslovacca.

A quel punto, la transizione al socialismo sovietico – che, a differenza di altri Paesi, era stata accolta favorevolmente dal popolo – si poteva definire completa, ma fin dall’inizio lo Stato fu posto sotto il controllo ideologico ed economico dell’Urss. Una direzione che avrebbe portato al rallentamento di un’economia in rampa di lancio, fino alla recessione degli anni ’60. Questi segnali, uniti ai primi malumori relativi alla rigidità sulle libertà di stampa e di espressione, iniziarono a far crescere il malcontento nel popolo.

Alexander Dubcek, Primo Segretario del Partito Comunista Cecoslovacco (1968-69)

La situazione esplose nel 1968, anno di proteste studentesche e operaie in tutta l’Europa occidentale che raggiunsero anche la capitale cecoslovacca, dando inizio a quel periodo noto in tutto il mondo come “Primavera di Praga”. Diversamente da altre città, tuttavia, alla crescita di questi movimenti seguì un’azione del governo volta alla tolleranza e all’ascolto. Il 5 gennaio divenne Segretario del Ksc (il partito comunista cecoslovacco) Alexander Dubcek, che impresse una svolta riformista nella direzione politica del partito. Le sue iniziative, che rientravano nel disegno del “Socialismo dal volto umano”, non si proponevano di rovesciare completamente il vecchio regime e allontanarsi dall’Unione Sovietica, bensì di mantenere il sistema economico collettivista affiancandovi una maggiore libertà politica, di stampa e di espressione. Tutte queste riforme furono sostenute dalla grande maggioranza del popolo ma, nonostante ciò, furono viste dalla dirigenza sovietica come una grave minaccia all’egemonia dell’URSS sui Paesi del blocco orientale.

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto Mosca optò per l’intervento armato. Praga si ritrovò ben presto circondata dai carri armati e occupata dai soldati sovietici. Dubcek fu arrestato dalle forze speciali e portato agli ordini di Breznev, dove fu costretto a firmare un protocollo di intesa nel quale doveva negare tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento e condurre il Paese ad una normalizzazione della situazione politica, che significava di fatto la fine dell’apertura democratica della Cecoslovacchia.

Carri armati sovietici sfilano verso piazza San Venceslao (Praga)

È in questo contesto che si inserisce il gesto di Jan Palach. Un ragazzo che aveva seguito con interesse e partecipato attivamente alla “Primavera di Praga” e che aveva visto questa stagione stroncata dalla repressione da parte di uno Stato straniero. Jan uscì dal suo alloggio alla periferia della capitale, si diresse verso il centro e imbucò tre lettere, destinate al leader studentesco di Praga, all’assemblea della Facoltà di lettere e filosofia e a un compagno di studi a cui era legato. Dopo aver preso fuoco, iniziò a correre per la piazza affollata e dopo un po’ cadde a terra, soccorso dai passanti che spensero le fiamme. Fu portato in ospedale, dove sopravvisse per altri tre giorni alle ustioni.

Per il suo gesto, Palach aveva tratto ispirazione da un episodio analogo avvenuto in Vietnam sei anni prima. Protagonista era stato un monaco buddhista, Thích Quảng Đức. Come segno di protesta contro il presidente cattolico del Vietnam del Sud e la sua politica di oppressione della filosofia buddhista, Thich si era mosso verso la capitale Saigon, fermandosi all’incrocio davanti all’ambasciata cambogiana. Già cosparso di benzina, si sedette nella posizione del loto e nel momento più elevato della meditazione si diede fuoco. La foto che il giornalista americano Malcolm Browne scattò – e che gli valse il premio Pulitzer – fece il giro del mondo e viene considerata ancora oggi una delle più iconiche del Novecento. Essa ritrae Thich perfettamente immobile, che non muove nemmeno un muscolo, mentre il fuoco divampa. Una volta cremato il corpo, le ceneri vennero esaminate e fu rinvenuto il cuore non combusto. L’eccezionalità del fenomeno portò al riconoscimento di Thich come “bodhisattva”, una figura dalla natura semi-divina e sacra.

Saigon, Thích Quảng Đức nella celebre fotografia scattata da Malcolm Browne

La notizia del gesto di Jan Palach, seppur privo di fotografie segnanti che lo immortalavano, ebbe grande risonanza in tutto il mondo. Così come le parole scritte nelle tre lettere. «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana».

Non è mai stato chiaro se esistesse effettivamente un gruppo di ragazzi pronti a darsi fuoco in segno di protesta. Fatto sta che il caso di Jan Palach non rimase isolato. Ci furono infatti altre torce umane, le quali però non destarono lo stesso scalpore della prima soprattutto a causa dell’operato del regime che non permise il diffondersi delle notizie e delle identità.

 

Piazza Jan Palach (Praga)

Il gesto di Palach spinse i cittadini cecoslovacchi a riprendere le ostilità nei confronti dello Stato, nel tentativo di replicare la “Primavera di Praga”. Tra marce pacifiche, scioperi della fame, scontri con la polizia e tensioni con le truppe sovietiche, tuttavia, la situazione non cambiò. Il regime continuò a screditare Palach, definendolo un fanatico con problemi mentali. La sua figura sarebbe stata rivalutata solo dopo il crollo del comunismo. Nel 1989 gli venne intitolata una piazza nel centro di Praga, fino ad allora dedicata all’Armata Rossa, mentre l’anno successivo il neopresidente Valcav Havel – uno dei maggiori intellettuali cecoslovacchi perseguitati dai comunisti, tra gli autori della celebre “Charta 77” – gli dedicò una lapide in piazza San Venceslao per commemorare il suo sacrificio in nome della libertà.

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