OSCAR E DISCRIMINAZIONE, QUANDO L’ACADEMY DIVIDE

Anche durante la notte degli Oscar il politically correct opera imperscrutabile senza discriminazioni di sesso, orientamento sessuale o colore della pelle. Era il febbraio del 2016, tra le tendenze di Instagram e Twitter impazzavano post e cinguettii riportanti l’hashtag #oscarsowhite, messaggio forte e chiaro volto a tracciare con l’evidenziatore un incontestabile dato di fatto: tra le nomination agli oscar latitano attori o attrici di colore, anzi, sono assenti del tutto.

Il tempio della settima arte che calpesta i valori dell’uguaglianza? L’Academy Award, che dovrebbe avvicinare le voci più variegate dell’arte figurata, spogliandosi di qualsivoglia influenza, si macchia di tendenze razziste? Già in passato attori e registi come Will Smith e Spike Lee si sono spesi sull’argomento, ma nell’edizione del 2016 le plemiche raggiunsero un culmine mai raggiunto nella storia degli Oscar.

I fiumi della polemica si aprirono a delta incanalati su due correnti distinte: da un lato i sostenitori di una scarsa produzione cinematografica incentrata su protagonisti o interpreti di colore, un trend al ribasso che negli anni ha finito con l’indebolire il movimento stesso. Meno investi su qualcuno o qualcosa e più è difficile che dal marasma una perla risalga la corrente. In altre parole, non ci sono attori neri tra i papabili alla statuetta perché nessuno di loro è meritevole di nomination. Qualsiasi richiamo al razzismo celato dietro al concetto albergherebbe dunque nell’interpretazione soggettiva di chi vuole attribuire questo o quel messaggio alla cosa.

Sul fronte opposto ci fu chi volle partire da semplici numeri e statistiche: a suo tempo, un articolo del Los Angeles Times aveva reso noto come il 93% dei membri dell’Academy fosse composto da bianchi, così come il 76% da uomini. Nel 2015 l’Academy provò a rimediare aggiungendo 332 nuovi membri, tra i quali un folto gruppo di donne e non-bianchi. Un numero rilevante all’apparenza, ma in termini di percentuale parliamo appena del 5% su circa 6000 votanti.

I venti dell’insurrezione, o presunta tale, alimentarono l’onda dell’orgoglio nero che i Marvel Studios avrebbero scelto in seguito di cavalcare mediante la promozione di Black Panther. Il Cinecomic, ambientato nell’immaginario regno di Wakanda, racconta per la prima volta le vicende di un protagonista di colore, affondando la propria sceneggiatura nel cuore della tradizione africana.

Agli albori del 2018 la pellicola ha sbancato i botteghini sia oltreoceano che in Europa, mentre la comunità afroamericana non ha lesinato omaggi a Chadwick Aaron Boseman per la sua interpretazione del ruolo. Durante l’NBA All Star weekend il leader degli Indiana Pacers, Victor Oladipo, ha sorpreso la platea dello slam dunk contest esibendosi in una schiacciata con indosso la maschera da Black Panther. La Disney non ha perso occasione per calcare la mano sul successo del film, decidendo di candidarlo all’Oscar 2019 in 16 categorie differenti. Un gesto che per i più maligni celerebbe un velato guanto di sfida alla morale hollywoodiana.

Niente di nuovo sotto il sole di Hollywood. La storia dell’Academy già in passato fece parlare di sé con storie di minoranze o discriminazioni. Tutti conoscono Il Padrino di Francis Ford Coppola, premiato nel 1973 con l’Oscar per il miglior film, migliore sceneggiatura originale e migliore attore protagonista, al secolo Marlon Brando. L’attore decise di boicottare la cerimonia, al suo posto a ritirare la statuetta si presentò Sacheen Littlefeather, una giovane nativa americana che lesse in mondovisione una lettera scritta dallo stesso Brando. La missiva spiegava le ragioni del rifiuto al riconoscimento, un secco no che traeva origine nel denunciato maltrattamento dell’industria cinematografica nei confronti degli Indiani d’America. Anche ai tempi l’opinione pubblica si divise, non emerse mai un parere univoco sulle motivazioni di Brando e su quanto esse fossero o meno fondate.

Dal passato al futuro, in vista dell’edizione 2019 il turno sotto la gogna è spettato a Kevin Hart, attore comico afroamericano prescelto inizialmente come presentatore della serata. Subito dopo l’annuncio il web ha cominciato a pullulare di vecchi tweet omofobi dello stesso Hart, frasi intrise di cattiveria e pesante ironia verso gli omosessuali.

L’interprete della Stand Up Comedy ha recitato il prevedibile mea culpa, annunciando la sua rinuncia al ruolo di presentatore. Una scelta volta a non destabilizzare l’attenzione in una serata, come quella degli Oscar, che dovrebbe puntare i propri riflettori esclusivamente sui film.

Già, proprio i film, i veri protagonisti di un evento nato per omaggiare e riconoscere il cinema come forma d’arte universale. Il media del linguaggio moderno capace di unire pur trattando le diversità, le sfumature di un meltin pot su pellicola che aiutano a comprendere il mondo e la sua reale essenza.  

Mauro Manca

Appassionato di sport e cinema. Scrivo per esigenza e credo in un'informazione libera e leale, amo raccontare storie che intrecciano il tessuto sportivo a quello sociale e politico.

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