L’ex boss della mafia della Versilia Carmelo Musumeci, conosciuto come “Il signore delle bische”, doveva scontare la sua pena in carcere fino al 31 dicembre 9.999.
Questo significa che il termine è fissato tra 7.979 anni, impensabile per un essere umano. «Una volta, ai condannati all’ergastolo, veniva scritto nel loro certificato di detenzione “fine pena mai” in rosso. Probabilmente con gli anni hanno iniziato a vergognarsi e oggi scrivono “fine pena anno 9.999“. Sembra strano ma la burocrazia, in particolar modo quella carceraria è folle», spiega Musumeci.
Nel 1992 viene condannato all’ergastolo ostativo, ovvero la detenzione a vita senza alcun beneficio per buona condotta. Nel caso in cui i mafiosi decidano di indicare nomi e fatti utili allo svolgimento delle indagini è prevista una misura di detenzione alternativa.
Carmelo Musumeci però, non ha mai collaborato con la giustizia per non stravolgere la vita della sua famiglia e aggiunge: «io credo che sia giusto uscire dal carcere per merito e non mettendo qualcun altro al posto tuo».
Per lo Stato, chi non collabora non si pente e non merita nessuno sconto. Oggi però, è in libertà condizionale nella comunità Papa Giovanni XXIII nei pressi di Perugia dove fa volontariato, aiuta disabili, bambini e scrive libri.
Musumeci è diventato un simbolo di resistenza contro quella che lui chiama una pena di morte viva e combatte per la rieducazione dei detenuti. «Un mafioso giustifica il male che ha fatto e si sente vittima del sistema. Il carcere invece, deve far emergere il senso di colpa. Un po’ come il film “Arancia Meccanica” ma senza violenza. Nella mia visione del mondo, ero io dalla parte giusta e gli altri i cattivi. Ho iniziato a capire di aver sbagliato quando ho conosciuto il bene grazie alle relazioni esterne al carcere».
Dopo che i giudici hanno riconosciuto l’inesigibilità della collaborazione concedendogli la semi libertà, un provvedimento storico del Tribunale di Perugia lo ha scarcerato con la liberazione condizionale.
Molti collaboratori di giustizia definiti pentiti, spesso scelgono la via più breve «per interessi personali», sostiene l’ex boss mafioso. Anche la criminologa Deborah Capasso è d’accordo: «la collaborazione viene tradotta come un pentimento ma io non credo che tutti quelli che hanno scelto questa strada si siano realmente pentiti».
Il pentimento, per entrambi, avviene quando un criminale capisce quello che ha fatto e inizia a sentirsi in colpa. Grazie alle relazioni umane e ai libri, Carmelo Musumeci ha capito la differenza tra la cultura malata mafiosa e quella sana della società.
«In questo modo la Mafia perde il suo esercito. Se togli l’acqua ai pescicani, i mafiosi rimangono senza soldati che si sporcano le mani per loro. La gente non sa che si può essere mafiosi senza commettere crimini e mandare in galera la carne da cannone. Io non ho mai visto in carcere politici, imprenditori ma solo tanta gente che spesso è ignorante e non sa fare due più due», racconta Musumeci.
Si riferisce a tutti quelli che non hanno avuto la possibilità di fare il suo percorso e che invece sono ancora convinti di essere nel giusto. «Per molte famiglie mafiose, avere un parente in carcere è un onore. Questo lo Stato non lo capisce o non ha gli strumenti per combattere questi fenomeni – sottolinea Musumeci e aggiunge – Questa mentalità si trasmette di generazione in generazione. Tutti i figli minorenni che vanno a trovare in carcere i loro padri, crescono odiando già lo Stato vedendoli così e saranno loro i futuri mafiosi».
Anche un boss come Toto Riina avrebbe potuto sentirsi in colpa se lo Stato lo avesse messo in condizioni per farlo, dice l’ex “signore delle bische”: «Uno come lui o Provenzano non si sono mai pentiti perché non hanno mai capito il male che hanno fatto. E’ troppo facile buttare un mafioso in una cella e lasciarlo lì a marcire. Lo Stato deve prendersi cura delle proprie carceri perché la Mafia si combatte sia fuori che dentro».
Nei suoi libri, Musumeci racconta com’è nato e cresciuto colpevole :«La mia povera nonna mi diceva di stare attento a qualunque uomo in divisa. “L’uomo nero” per me era il carabiniere o il poliziotto e sono cresciuto odiando le forze dell’ordine».
Consapevole che sarebbe morto in galera, ha iniziato a studiare. Il 41 bis vieta l’ingresso dei libri all’interno ma di nascosto, riceveva le pagine strappate dei manuali universitari. Più studiava più capiva che i suoi diritti all’interno del carcere venivano violati tanto da portare avanti una vera e propria battaglia. «Il carcere non vuole che diventi buono ma solo che fai il buono. Dovrebbe migliorare un detenuto e invece lo peggiora». Lui definisce l’ergastolo «una condanna cattiva che trasforma il colpevole in una vittima».
Attraverso la penna, racconta le violenze subite: «Ricordo gli anni nel carcere dell’Asinara dove le guardie, per festeggiare la fine dell’anno, ci bastonavano. Erano convinti di fare del bene ma non si rendevano conto di ottenere il contrario».
Per Musumeci «un detenuto che studia diventa pericoloso perché è in grado di capire e lottare per i suoi diritti», così ha iniziato a scrivere per comunicare ciò che succedeva all’interno di quelle mura. Con il tempo le sue parole sono arrivate all’esterno e personaggi della Chiesa, dello spettacolo e del mondo intellettuale hanno iniziato a supportarlo.
Dopo 5 anni gli hanno levato il 41 bis ed è riuscito a laurearsi. Entrato con la quinta elementare ha conseguito tre lauree in carcere. «Oggi la mia pena ha un senso perché riesco a distinguere la differenza tra bene e male».
Per la criminologa Deborah Capasso, il caso di Carmelo Musumeci è particolare ma non isolato. «Lui come altri, ha aperto i libri e ha avuto la volontà di cambiare. La cultura è importante per capire la differenza tra bene e male e il carcere è l’università del crimine: se fuori non sapevi qualcosa, dentro lo impari. A causa delle condizioni critiche che affliggono la realtà carceraria italiana, come il sovraffollamento, all’interno si viene a ricreare la stessa struttura sociale criminale esistente all’esterno. L’obbiettivo della detenzione dovrebbe essere quella di isolare il criminale dal contesto da cui proviene ma spesso avviene il contrario. Abbiamo visto mafiosi che continuavano a portare avanti le loro attività illecite rinchiusi in una cella e sono convinta che la rieducazione sia fondamentale. A volte però, l’ergastolo diventa una pena esemplare a dimostrazione del male che si è fatto alla società».
«Stare a contatto con chi viene dallo stesso contesto non favorisce il cambiamento. Ci sono delle iniziative che prevedono un percorso di rieducazione collettivo ma è necessario lavorare sul singolo. Capire la sua natura psicologica e sociologica. Da dove viene e come è diventato un criminale – spiega Deborah Capasso e continua – E’ importante fargli capire la differenza tra bene e male per far emergere il senso di colpa. Per un ergastolano è molto più difficile perché non ha motivazioni per farlo. La consapevolezza di portare all’esterno quello che ha imparato è fondamentale altrimenti rimarrebbe nello stesso posto dove lo hanno rinchiuso».
‘Ndrangheta e i figli dei boss
Lo psicologo Enrico Interdonato ha spiegato come si può combattere la mafia, nel suo caso specifico la ‘ndrangheta, salvando i figli dei boss attraverso il progetto “Liberi di scegliere”: «Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria con cui collaboro dal 2012, sta provando a collocare alcuni figli appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta, fuori dalla regione. L’obiettivo è provare a offrire una chance alternativa a quella del loro contesto di provenienza. Le mamme sono fondamentali e qualche padre ora, inizia a scrivere lettere di ringraziamento dal carcere. Noi lavoriamo con la famiglia e non contro».
‘Ndrangheta e le mogli dei boss
Lo scrittore Giuseppe Laganà che con il suo libro «La ‘ndrangheta è anche femmina e non è bella», ha spiegato il ruolo della donna nella famiglia ‘ndranghetista e racconta il lavoro di rieducazione svolto con le mogli dei boss: «Ogni organizzazione criminale ha le sue specificità. La donna, nella mafia calabrese è sempre stata rilevante. La trasmissione della memoria e la collaborazione con il maschio per crescere una personalità criminale avviene attraverso la madre. A volte ha partecipato lei stessa alle azioni delittuose e ha preso decisioni del clan in assenza del capo, ovvero il marito. Ma c’è, invece anche la donna che subisce la prepotenza del maschio e viene schiacciata, nonostante ciò però esiste una condivisione di disvalori che consente all’organizzazione di sopravvivere. Da un po’ di anni però, questo sistema mostra delle crepe grazie anche al Tribunale dei minori. Alcune donne sono stanche di questa vita e vogliono cambiare».