Figure presenti già nella storia antica, le balie ebbero grande sviluppo a partire dall’Ottocento, con l’usanza delle giovani puerpere di famiglia disagiata di lasciare i propri affetti e recarsi a fornire nutrimento a pagamento, fino a scomparire nella seconda metà del nostro secolo con la diffusione sempre maggiore dell’allattamento artificiale. Spesso le balie allattavano figli di donne lavoratrici (lavoranti a domicilio per la protoindustria o operaie nelle fabbriche della Rivoluzione industriale) che non potevano permettersi di sospendere il lavoro durante i mesi dell’allattamento, poiché dal loro salario dipendeva il mantenimento delle famiglie.
Diversa la situazione invece nel caso di servizio in famiglie benestanti o decisamente ricche. Il pasto veniva solitamente servito in camera, limitatamente ai primi mesi di vita del bambino, poi insieme alla servitù in cucina o eccezionalmente nella sala da pranzo con i padroni (festività e ricorrenze), ma era un evento raro in considerazione del fatto che le balie erano di un ceto sociale inferiore e disagiato e quindi anche le loro maniere a tavola lo rivelavano in modo marcato. Numerose testimonianze notano una certa resistenza da parte delle balie a dover accettare l’invito di consumare i pasti nella sala da pranzo con i padroni, in parte per la naturale soggezione e in parte al fatto di ignorare totalmente il comportamento da tenere e il galateo da osservare.
Ovviamente il trattamento riservato loro era dignitoso, ma più che un segno di rispetto o legame affettivo da parte dei padroni, era finalizzato all’ottenimento di un latte di qualità per il loro figlio. Essendo l’Italia particolarmente ricca di alimenti locali e regionali, il trattamento alimentare era profondamente diverso in qualità e quantità. Un’accurata descrizione dell’alimentazione delle balie è fornita da Maria, una balia del 1938 di Alessandria: un’alimentazione leggera e nutriente, che al mattino prevedeva una colazione tradizionale a base di caffelatte (un bricco di latte e un po’ di caffè nero) con pane secco arricchito a livello calorico da un po’ di burro. Il pranzo all’una “prima davo da mangiare alla bambina, poi la pulivo, la mettevo nella sua culla e la cullavo un pochino.”
A tavola “erano praticamente sempre bistecche ai ferri o con l’osso o roast-beef, oppure pollo alla cacciatora. Prendevano quei polli, che allora erano buoni, li battevano e poi li facevano cuocere con una pentola chiusa con rosmarino, un po’ di salvia, un po’ di sale e poi un po’ di olio e un po’ di burro e lo lasciavano lì adagio con un fuoco regolare. Poi c’era sempre la verdura, condita con olio e limone, niente aceto perché faceva male al bambino e in ultimo due bicchieri di vino, ‘Sangue di Giuda’ o ‘Barbera’ perché faceva bene al latte, niente birra. Come primo c’era la pastasciutta, ma non tanta, perché io dovevo mangiare soprattutto il secondo, per avere le vitamine più urgenti, in modo che il latte fosse perfetto, per trasmettere i nutrienti alla bambina…”.
Ovviamente la conoscenza alimentare era approssimativa e dunque non stupisce l’attribuzione errata dell’apporto vitaminico nella carne. Il racconto prosegue con la descrizione dello spuntino pomeridiano e della cena “al pomeriggio mi facevano il tè con del pane secco, almeno due fette, se invece uscivo di casa per andare ai giardini mi portavo dietro una banana. Alla sera c’erano gli affettati, prosciutto crudo, senza grasso, grissini un po’ di pane, una minestrina non troppo acquosa, magari di brodo, riso e prezzemolo, o riso e sedano, però piuttosto ristretto, non molto, perché si privilegiava il secondo, per via delle vitamine…”.
L’alimentazione della balia era quindi particolarmente curata e misurata, due fette di pane secco e il prosciutto crudo privato del grasso, perché il fine primario e quasi scientifico, era l’ottenimento di un latte di qualità. Un’altra balia di Feltre (Belluno) racconta: “certi alimenti acidi non li potevo mangiare, perché dicevano il latte diventava cattivo. A me facevano sempre poca pastasciutta e riso, carne sempre e verdura, verdura cotta…, mangiavo benissimo e poi c’era sempre anche un bicchiere di vino bianco”.
Le balie quindi se da una parte erano “usate” come produttrici di latte, dall’altro erano donne fortunate poiché, nella maggioranza dei casi, lasciavano lavori faticosi nei campi e ritornavano poi a casa con un aspetto florido, una maggior bellezza e gentilezza dovuta anche all’aver appreso modi cortesi che erano motivo di invidia. Una fortuna che veniva spesso rimpianta, facendo desiderare di partorire presto per ritornare a balia un’altra volta. Erano quindi donne invidiate dalle altre del medesimo ceto sempre provate da fatiche e stenti, come testimoniato dal Veneto, dove alla vista di una bella donna si usava esclamare “Varda che bela, la par ‘na balia!”.
a cura di Marta Zanichelli