L’olio di palma è oggi al centro dell’attenzione a causa di una campagna stampa divisa e indecisa se schierarsi a favore o contro. Cerchiamo di fare chiarezza con qualche dato capace di inquadrare il fenomeno. A livello di mercato l’olio di palma rappresenta quasi la metà (35-40%) della produzione mondiale di olii vegetali (seguono soia (27%), colza (14%), girasole, 10%, olio di oliva > 1% (Fonte: Usda, 2014).
L’Italia, patria dell’olio extravergine di oliva importa ben 1.600.000 tonnellate di olio di palma, destinato interamente alla produzione di cibo industriale. Le aziende alimentari preferiscono utilizzare olio di palma e non altri, perché è caratterizzato da acidi grassi che ossidandosi più lentamente, garantiscono una “vita media” del prodotto più lunga. Sempre a livello industriale, l’olio di palma ha, nel corso del tempo, sostituito i grassi vegetali idrogenati (pericolo per la salute certo e documentato).
Dal punto di vista chimico, l’olio di palma, è composto dal 49% da grassi saturi e per il restante 51% da insaturi (l’olio di oliva, ad esempio, è composto per il 70-80% da grassi monoinsaturi come l’oleico e saturi, come il palmitico 7-15%). Gli acidi grassi dell’olio di palma, sono a livello chimico-fisico caratterizzati da grande stabilità (dovuta dall’elevato numero di legami stabilizzati dalla saturazione) e quindi particolarmente resistenti ai trattamenti termici (cottura). A questo si deve aggiungere una bassa tendenza all’ossidazione con il mantenimento di un sapore neutro, particolarmente gradito dalle industrie alimentari, che lo possono utilizzare senza alterare il gusto e gli aromi.
Tutto bene quindi? Quasi
Recentemente l’EFSA (European Food Safety Authority) si è espressa dopo uno studio che ha caratterizzato un percorso di analisi scientifiche durato ben 5 anni (2010-2015), evidenziando la pericolosità dei contaminanti dal processo a base di glicerolo presenti nell’olio di palma. Più specificatamente, L’EfSA ha valutato i rischi per la salute pubblica derivanti da alcuni composti (glicidil esteri degli acidi grassi (GE), 3-monocloropropandiolo (3-MCPD), e 2- monocloropropandiolo (2-MCPD) e loro esteri degli acidi grassi) che vengono originati durante alcune produzioni alimentari che richiedono l’impiego di temperature particolarmente elevate come nel caso dei prodotti da forno che sottopongono gli olii a temperature particolarmente elevate (attorno ai 200° C). Il rischio di assumere questi contaminanti e composti raffinati è dose/peso quindi particolarmente pericoloso per i bambini piccoli (consumatori abituali di biscotti e altri prodotti da forno).
Dopo il parere tecnico dell’EFSA, la parola definitiva (?) passa alla Commissione UE che dovrà emettere non un semplice parere (L’EFSA non ha potere legislativo) ma una direttiva specifica sulle modalità e possibili limiti di utilizzo. Intanto, sempre a livello legislativo, dal 13 dicembre 2014 è obbligatorio dichiarare in etichetta la presenza dell’olio di palma, in sostituzione della precedente e generica dicitura “oli vegetali”.
Ma leggi e decreti a parte (non sempre condivisibili e condivisi dai paesi UE), resta il buon senso che nulla ha a che vedere con la psicosi e caccia alle streghe sull’olio di palma, che ricorda molto quelle passate e recenti su: burro (servita per mettere in commercio la margarina), formaggi (servita per vendere le creme “light”, uova (per favorire il commercio di proteine più magre e…costose).
Più che un problema di sanità pubblica o nutrizionale, l’olio di palma è un problema ambientale: negli ultimi decenni il numero delle piantagioni delle palme da olio, coltivate in modo estensiva, è incrementato in modo esponenziale, sottraendo spazio alle foreste pluviali, il polmone del nostro pianeta. Un danno ambientale particolarmente grave in paesi come Indonesia e Malesia, che esportano quasi il 90% della produzione mondiale di olio di palma. Ma oggi quasi tutto il nostro cibo tradizionale incide pesantemente sulla sostenibilità ambientale, basti pensare che il 30% delle emissioni di gas serra (nocivi per il mantenimento climatico sotto i 2°) è dovuto alla produzione agricola (bovini da carne e vacche da latte sono tra i principali inquinanti mondiali).
a cura di Marta Zanichelli