«’Sei sovente pusillanime, talvolta invece protervo’, disse laconico». Nel giro di poco tempo, potremmo averci capito qualcosa solo in pochi. In un pezzo firmato da Gian Antonio Stella tempo fa sul Corriere, è stata fotografata una generazione in preda a una diffusa amnesia linguistica. L’occasione per l’amara denuncia è l’uscita, per i tipi de Il Saggiatore, di “Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua” di Massimo Arcangeli, linguista e critico letterario, professore ordinario di Linguistica italiana all’università di Cagliari.
I LAPSUS DEGLI STUDENTI
L’autore ha lavorato per anni su un campione di 176 matricole della sua e di altre università. I risultati sono scoraggianti: «ben 175 non hanno saputo indicare un sinonimo per ‘apodittico’». E ancora: «blaterare diventa sinonimo di consultare o sussurrare; corroborare è come dire accorpare, considerare, continuare o rovinare», riporta Stella.
La tendenza sembra essere quella di una correzione al ribasso, dove «profumo» rimpiazza «fragranza», «saporito» scalza «sapido». Come dinosauri, rischiano invece l’estinzione almeno 50 termini tra cui «abulico» e «sordido». Parole che per gli studenti significherebbero invece, rispettivamente: «brutto» e «chiaro». Resta addirittura senza sinonimi la parola «apodittico». Quel che di apodittico c’è in tutta questa storia è un impigrire complessivo del nostro vocabolario, con le dovute conseguenze.
Col filosofo Martin Heidegger: riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponda una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare. In questo senso, la semplificazione sottrae nodi alla mappa logica del nostro cervello. Insieme a un vocabolo smarriamo irrimediabilmente anche un concetto, a cui un sinonimo non può che avvicinarsi con un grado talvolta non trascurabile di approssimazione.
LA LINGUA È MORTA, LUNGA VITA ALLA LINGUA
Da qui, l’atroce verità: le lingue muoiono. La sfida, ora, consiste nel rintracciare il discrimine tra catastrofismo ed evoluzione, nell’ennesimo capitolo della sfida senza fine tra «apocalittici e integrati». Ai linguisti il compito di indossare il camice bianco per stabilire se le trasformazioni in atto siano «fisiologiche» o «sintomatiche» di un problema più profondo. Paradossalmente, ma neanche troppo, il metro di paragone potrebbe essere anche la lingua stessa in cui scrivo, nata dopotutto dalle ceneri del latino.
Nel dubbio, la casa editrice Zanichelli ha recentemente stimato che sono ben 3.126 le parole che stanno svanendo dal nostro vocabolario, e ha lanciato la campagna social #paroledasalvare. Lo scopo non è solo quello di «far conoscere una parte meno nota del nostro patrimonio lessicale», ma anche «invitare al suo impiego per ritrovare il gusto di parole meno consuete, anzi ‘desuete’, che sarebbe un vero peccato perdere». Il profilo Instagram della casa editrice pubblica quotidianamente una parola spiegandone il significato e accompagnandola da illustrazioni che ne racchiudano il senso.
DILLO CON UN EMOJI
In questo scenario sconfortante, nessuno si senta immune da sensi di colpa. Chiunque, dai primissimi anni Ottanta in poi, quando l’informatico statunitense Scott Fahlman introdusse nei commenti una punteggiatura che imitasse un volto sorridente, ha utilizzato almeno una volta la «faccina» 🙂. L’ultimo stadio dello sviluppo della «clonazione» delle nostre espressioni facciali sono gli emoji. Secondo la società di ricerca eMarketer, sono circa sei miliardi gli emoji e gli sticker scambiati ogni giorno via smartphone. Questi dati non includono quelli utilizzati su computer, né tengono conto delle foto e dei video, in costante aumento.
In quet’era post-alfabetica, per il linguista britannico Vyv Evans, staremmo tornando a esprimerci per geroglifici. In comune con l’antica forma di rappresentazione c’è non solo l’idea di rappresentare graficamente una parola, ma anche una natura non-verbale che ricorda alcune dinamiche preistoriche. Nel quotidiano, spiega Evans, gli emoji sostituiscono i gesti e il tono di voce che non possono essere resi a parole.
Comunque vada a finire la sfida tra apocalittici e integrati, la discussione intorno al tema è già resistenza. D’altronde, scriveva Jorge Luis Borges in una sua poesia: «Chi scopre con piacere un’etimolgia. […] Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson. […] Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo».
a cura di Marta Zanichelli