Ucraina, il grano ostaggio dei russi: la mappa della crisi

La guerra in Ucraina e la crisi alimentare sono sicuramente correlate: il prezzo del grano tende a salire e le forniture sono bloccate nei porti. Da quando la Russia ha invaso il Paese, il porto di Odessa è stato bloccato, così come quasi tutti gli scali portuali che si affacciano sul Mar Nero. Prima della guerra, il 95% delle esportazioni di grano ucraino passavano per i porti del Mar Nero e del Mare d’Azov. Oggi a impedire la partenza delle navi, cariche di grano e di altri prodotti agricoli, è la presenza della flotta russa.

La battaglia navale

La guerra si combatte anche sulle rotte commerciali. Fin dall’inizio la Russia è riuscita a condizionare l’import e l’export ucraini accumulando vittorie. Il 25 febbraio la flotta russa ha conquistato l’Isola dei Serpenti, al largo di Odessa. Gli ucraini hanno provato più volte a riconquistarla. Data la sua posizione, permetterebbe di riattivare le rotte commerciali sospese. Una volta chiuso il collegamento tra il Mar d’Azov e il Mar Nero, i russi hanno posizionato navi e sottomarini davanti ai porti e hanno impedito ai mercantili di uscire.

Odessa, città portuale ucraina

Nel frattempo, però, gli ucraini hanno seminato mine galleggianti lungo la costa di Odessa, impedendo sia alla Russia di attraccare che alle altre navi di attraversare quel tratto di mare. Si stima che nei porti ucraini ci siano circa 20 milioni di tonnellate di grano fermi e 84 mercantili a cui i russi impediscono la partenza.

La Turchia, che controlla gli stretti del passaggio verso il Mar Nero, appellandosi alla convenzione di Montreux del 1936, ha chiuso i passaggi ai Paesi in guerra, anche se, in realtà si pensa che la Russia stia aggirando il divieto, utilizzando cargo civili.

Negli ultimi giorni, però, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, si è detto disposto a collaborare con l’Onu all’apertura di corridoi per il trasporto dei raccolti ucraini. Parigi e Berlino hanno infatti avviato un canale diplomatico con Mosca per ripristinare l’export. Le soluzioni messe in campo sono diverse. Da una parte i Paesi europei propongono di aiutare l’Ucraina a sminare il mare di Odessa o di scortare le navi cariche di grano, dall’altra si prevede un aumento dell’esportazione via terra.

La Germania ha già un piano per trasportare i cereali in treno dalla Polonia e farli arrivare ai porti tedeschi del Mare del Nord, mentre la Romania ha messo a disposizione il porto di Costanza per scaricare gli alimenti che potrebbero arrivare dalle stazioni ferroviarie. Nel frattempo, un treno di prova è arrivato in Lituania dall’Ucraina con un primo carico alimentare.

L’aumento del trasporto via terra non potrà comunque supplire al blocco navale sia perché la merce sta andando a male e ci vuole un trasporto molto più veloce di quello possibile col treno, sia perché per organizzare una reale alternativa al mare ci vorranno nuove infrastrutture e diversi anni per costruirle.

L’idea di sminare il mare e scortare le navi commerciali ha, invece, alti margini di rischio. Significherebbe mandare soldati dei Paesi Nato in un tratto di mare fortemente militarizzato, dove un qualsiasi incidente potrebbe causare un’escalation militare. Inoltre, il Cremlino sembra intenzionato a sfruttare la situazione, per costringere l’Europa ad alleggerire le sanzioni e a bloccare il flusso di armi verso l’Ucraina.

Forzare il blocco potrebbe, poi, non essere sufficiente. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha accusato la Russia di rubare le scorte di frumento, che passando per il Bosforo, vengono vendute all’estero. Secondo la Commissione europea, sono state raccolte diverse prove sul furto del grano da parte delle truppe russe, che stanno anche distruggendo diverse scorte con i bombardamenti sui magazzini.

Container al porto di Odessa, in Ucraina
Il mercato globale

La crisi, quindi, ha origine sicuramente dalla guerra in corso, come testimonia il fatto stesso che il prezzo del grano abbia accelerato la sua ascesa fin dalle prime fasi del conflitto. L’Ucraina e la Russia, infatti, coprivano il 30% delle esportazioni di frumento. Insieme producono un terzo del grano mondiale. Dall’Ucraina partivano anche circa il 16% delle esportazioni globali di mais, il 10% dell’orzo e il 42% dell’olio di semi di girasole.

Ad aggravare la situazione, però, è soprattutto la reazione a catena che si è propagata. L’India, secondo produttore mondiale di grano, ha bloccato le esportazioni per tenere sotto controllo i prezzi del mercato interno. Questo potrebbe aggravare la situazione anche in Europa, ma l’Onu si è impegnata a garantire le spedizioni delle riserve bloccate in Ucraina.

Secondo l’analisi di Coldiretti, poi, negli ultimi giorni il prezzo sarebbe addirittura sceso. Si tratterebbe, quindi, di una serie di oscillazioni frutto di una speculazione dei grandi fondi che operano sulla borsa delle materie prime. Negli ultimi 15 anni è successo già altre volte che gli investitori spingessero al limite le oscillazioni del prezzo, nonostante l’offerta mondiale del grano sia rimasta costante. Per il Consiglio internazionale dei cereali, organizzazione intergovernativa che promuove la cooperazione nel mercato, la produzione di cereali scenderà tra il 2022 e il 2023 di appena il 2% rispetto allo scorso anno, ma sarà comunque la seconda raccolta più ricca di sempre.

Mietitura di un campo di grano

Uno studio dell’Ismea (Istituto dei servizi per il mercato agricolo e alimentare) mostra, inoltre, che l’aumento dei prezzi era iniziato già prima della guerra. La causa principale sarebbe il cambiamento climatico che porta a cali di produzione, ad aumenti dei costi energetici e a fenomeni speculativi nella borsa.

La produzione mondiale del grano è, infatti, leggermente in calo. È l’effetto della riduzione soprattutto negli Stati Uniti, in India e in Ucraina. Si stima che nel Paese invaso il raccolto sarà circa il 40% in meno rispetto a quanto previsto in questa stagione. L’Italia, per esempio, importa il grano duro dal Canada, che ha avuto un calo di produzione del 60% a causa della siccità.

Nonostante tutte le difficoltà, la riduzione del raccolto è abbastanza contenuta, dato che molti Paesi ne stanno coltivando di più per colmare il vuoto. Tra questi c’è la Russia, dove il raccolto è addirittura aumentato.

Chi paga il prezzo più alto

A fare le spese di questo rincaro ingiustificato dei prezzi, sono sia l’Ucraina che i Paesi più poveri e più dipendenti. L’Egitto, per esempio, importa la maggior parte del suo grano, di cui il 50% dalla Russia e il 30% dall’Ucraina. Ad aprile ha pagato le sue forniture 450 dollari a tonnellata, mentre a febbraio l’aveva pagato 252 dollari.

Tutto il nord Africa e l’area sub-sahariana sono a rischio. Il programma alimentare mondiale prevede che quest’anno le sue spese per i beni alimentari saliranno del 50%. Solo per l’Africa occidentale spenderà 136 milioni di dollari in più.

I prezzi alimentari erano già in aumento a causa dell’interruzione di molte linee di approvvigionamento e dei ritardi nella distribuzione accumulati durante la pandemia. La guerra e il mercato azionario hanno fatto il resto.

Oltre ad affamare la popolazione, questa crisi del grano alimenta l’instabilità politica di molti governi.  In Burkina Faso, per esempio, i fornai hanno provato ad abbassare le saracinesche, per protestare contro l’aumento dei costi di produzione e il tetto al prezzo del pane, fissato a un costo 0,23 centesimi di euro ogni 200 grammi.

Il prezzo del grano è salito in meno di due mesi di circa 229 euro a tonnellata. L’impennata del prezzo nei Paesi in via di sviluppo è stata molto più ripida di quella che si è avuta in Europa, dove oggi una tonnellata di grano duro supera i 500 euro, mentre una tonnellata di grano tenero per la panificazione è oltre i 400 euro.

Nonostante si tratti di un aumento più contenuto rispetto a quello visto in Africa, gli imprenditori e gli artigiani che lavorano cereali e farine vedono costi praticamente raddoppiati rispetto alla fine del 2020 e l’inizio del 2021.

Al netto delle conseguenze sui prezzi dei prodotti nel carrello della spesa e sul consumatore finale, è chiaro però che nell’Unione europea non c’è una crisi alimentare. Il nostro Paese compra una quantità marginale di grano dall’Ucraina.

Un campo di mais

Il vero problema è legato, piuttosto, alle forniture di foraggi, come soia e mais, che l’Italia negli ultimi anni ha preferito importare per i prezzi vantaggiosi. Il 15 % del mais importato in Italia viene dall’Ucraina. Si tratta di 785 milioni di chili destinati all’alimentazione degli animali.

Le conseguenze per l’ambiente

In Europa il 62% dei cereali è destinato alla nutrizione degli animali allevati. Se i Paesi europei riducessero di circa il 10% la produzione zootecnica, potrebbero fare a meno della maggior parte delle scorte proveniente dall’Ucraina.

L’Unione europea, però, ha deciso di rispondere alla crisi del mangime deregolarizzando la produzione sul proprio territorio, al fine di supplire all’eventuale diminuzione delle importazioni. Gli Stati membri possono consentire la produzione di qualsiasi coltura per l’alimentazione e usufruire dei terreni incolti, anche nelle aree destinate alla tutela della biodiversità. Il piano, quindi, costituisce una deroga ai principi fondamentali della Politica agricola comune (Pac), che per il 2030 aveva previsto di destinare il 25% della superficie europea al biologico. Sarà possibile aggirare anche il divieto dell’uso di alcuni pesticidi e coltivare terreni che dovrebbero essere lasciati a riposo o dedicati ai pascoli.

Allevamento intensivo di mucche

Si tratta di un grosso passo indietro nella lotta al cambiamento climatico, dato che secondo l’Ipcc (il gruppo intergovernativo che sta affrontando la questione), l’allevamento è la causa di quasi un quarto delle emissioni di gas serra. L’Ipcc ha messo in guardia anche sui rischi legati alle epidemie, che nascono negli allevamenti intensivi e possono diffondersi anche tra gli esseri umani.

Nonostante dopo lo scoppio della pandemia da Covid-19 le Nazioni Unite abbiano inserito questo tipo di produzione tra i fattori che provocano l’insorgenza di epidemie e dopo tutti i dati raccolti contro questo sistema agroalimentare, oggi la realizzazione del Green deal appare più lontana che mai.

Elisa Campisi

SONO GIORNALISTA PRATICANTE PER MASTERX. MI INTERESSO DI POLITICA, ESTERI, AMBIENTE E QUESTIONI DI GENERE. SONO LAUREATA AL DAMS (DISCIPLINE DELL’ARTE DELLA MUSICA E DELLO SPETTACOLO), TELEVISIONE E NUOVI MEDIA. HO STUDIATO DRAMMATURGIA E SCENEGGIATURA, CONSEGUENDO IL DIPLOMA TRIENNALE ALLA CIVICA SCUOLA DI TEATRO PAOLO GRASSI.

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