Dopo due settimane di tira e molla, l’Europa ha trovato il suo nuovo equilibrio. Le caselle dei quattro top jobs – presidenti della Commissione, del Parlamento, del Consiglio e Alto rappresentante per gli Affari esteri – sono state riempite in extremis. Toccherà al Consiglio europeo rettificare il patto raggiunto dai sei negoziatori e rimettere tutto nelle mani del Parlamento.
Tutto è come doveva essere
Nessuno scossone: la Commissione a Ursula von der Leyen e il Consiglio ai socialisti e ad Antonio Costa. L’Alto rappresentante sarà la liberale Kaja Kallas e il Parlamento rimarrà nelle mani della popolare maltese Roberta Metsola. Un accordo che è stato siglato nella giornata di martedì 25 giugno, a 48 ore dalla prima sessione del Consiglio europeo durante il quale le nomine dovrebbero essere confermate.
È stato un lavoro a dodici mani in un conclave segreto. Sei i negoziatori: due socialisti (Olaf Scholz e Pedro Sanchez), due liberali (Mark Rutte e Emmanuel Macron), due popolari (Kyriakos Mitsotakis e Donald Tusk). La fiducia in un rapido accordo che il presidente francese aveva manifestato si è avverata. Non senza qualche schermaglia tra le parti, in particolare sull’alternanza dei poteri e sulla inclusione dei conservatori e riformisti nella coalizione di maggioranza.
The deal that the @EPP made with the leftists and the liberals runs against everything that the EU was based on. Instead of inclusion, it sows the seeds of division. EU top officials should represent every member state, not just leftists and liberals! pic.twitter.com/U8HoWrT7TH
— Orbán Viktor (@PM_ViktorOrban) June 25, 2024
Il Consiglio dovrà consolidare il tutto con il voto di giovedì e venerdì. Non servirà l’unanimità, ma basterà la maggioranza qualificata: 20 sui 27 capi di Stato e di governo, a condizione che quei Paesi rappresentino almeno il 65% della popolazione comunitaria. Insomma, nessuna possibilità di veto da parte di chi è rimasto a bocca asciutta. Da Viktor Orban, premier ungherese che da lunedì 1 luglio sarà presidente di turno dell’Ue, a Giorgia Meloni.
C’è chi sta contro…
Nessun accordo per i top jobs se nelle trattative sarà incluso l’Ecr. La pre-condizione posta da liberali e social-democratici era troppo netta perché Ursula von der Leyen potesse trovare un modo di aggirarla. Il risultato è stata l’esclusione dal negoziato di Giorgia Meloni e del terzo partito europeo. Fatto che, come è facile immaginare, non è stato ben digerito dalla presidente del Consiglio italiana.
Non bastano i saltuari contatti telefonici con alcuni dei negoziatori (non si sa neanche quali), che comunque sembrano rimanere in un ambito formale. «Dovevano avere più rispetto per un Paese fondatore dell’Unione», è il sentimento che sembra filtrare da Palazzo Chigi. «Hanno deciso di andare avanti senza di noi. A questo punto nulla è scontato, nemmeno il sostegno parlamentare del gruppo Ecr a un secondo mandato di Ursula von der Leyen». Anche perché è probabile che l’eventuale appoggio alla politica tedesca arriverà solo in cambio di qualcosa. Roma più volte ha chiesto una vicepresidenza della Commissione con un portafoglio di peso, l’agenzia Bloomberg suggerisce che i sei negoziatori hanno accettato di garantire all’Italia una vicepresidenza esecutiva.
Giorgia Meloni non si accontenta. La premier sembrerebbe pronta a un gesto di rottura: l’astensione al prossimo Consiglio europeo, un evidente segnale di disapprovazione del modo in cui le nuove nomine sono state raggiunte. Il cortocircuito è evitato – Ursula von der Leyen sarà comunque scelta come presidente della Commissione – ma il gesto è più che semplicemente simbolico. Se in Parlamento i Verdi non sostenessero Ursula von der Leyen e lo stesso facesse Ecr, la candidatura della politica tedesca rischia seriamente di saltare.