In Venezuela – un paese piegato dal duplice giogo della crisi economica e della repressione politica – Nicolas Maduro avvia, il 10 gennaio, il suo secondo mandato presidenziale: resterà in carica fino al 2025. Un’operazione contestata, avvenuta durante una cerimonia boicottata dalla maggior parte dei presidenti latinoamericani.
Le elezioni dello scorso maggio sono state etichettate, dai 13 paesi aderenti al Gruppo di Lima, come illegittime, dal momento che non vi hanno potuto partecipare tutti i partiti politici. Non vi erano infatti osservatori internazionali e mancavano standard e garanzie per un voto «equo, libero e trasparente».
Nonostante le contestazioni, il presidente Maduro ha proseguito nei suoi propositi. Avrebbe dovuto giurare dinnanzi all’Assemblea Nazionale, come da costituzione, ma ha deciso di esautorarla perché dominata dall’opposizione che aveva vinto le ultime legislative. Il giuramento si è tenuto quindi davanti alla Corte Suprema, di cui fanno parte molti suoi sostenitori.
Un’autocelebrazione che di fatto è lo specchio di un Paese divenuto una dittatura governata da un pugno di uomini e donne che, sorretti dalle Forze armate, ormai, hanno tutto da perdere da un cambio di rotta.
Nella notte, a poche ore dal giuramento di Maduro, alcuni elementi della Forza armata nazionale bolivariana (Fanb) si sono posizionati in diverse zone di Caracas e del Paese. È stato bloccato anche l’accesso alla zona centrale della capitale e i militari hanno posto un presidio vicino al Palazzo legislativo. Per controllare il traffico dei veicoli, sono stati collocati dei posti di controllo in Plaza Venezuela e lungo la centrale Avenida Urdaneta. Simili movimenti sono poi avvenuti nelle principali città del Paese come San Cristbal (Stato di Táchira), Maracaibo (Zulia) e Barquisimeto (Lara), ad ovest di Caracas. Contemporaneamente, i membri dei cosiddetti “collettivi armati”, simpatizzanti con il governo, si sono situati in alcuni quartieri popolari della capitale.
La situazione fa crescere le pressioni internazionali: 12 dei 13 paesi che compongono il Gruppo di Lima intendono vietare l’ingresso dei vertici del regime nei rispettivi confini. Unico neutrale il Messico di Obrador, che spinge per una soluzione negoziata per il ritorno della democrazia.