Mesi di stallo, in una situazione paradossale quanto pronosticabile. I Democratici favorevoli, i Repubblicani trumpiani fortemente contrari. E una sottile zona grigia di conservatori che ne comprendevano l’importanza. Questa volta, però, è stata quella buona. Sabato 20 aprile la Camera dei rappresentanti americana ha approvato un pacchetto di aiuti per un totale di 95 miliardi di dollari da dividere tra Ucraina, Israele e Taiwan. A sbloccare la situazione lo speaker repubblicano Mike Johnson, che ora però rischia il collo.
Le misure pro Kiev, Tel Aviv e Taipei
Mancano pochi minuti al voto, quando nella Camera i rappresentanti democratici iniziano a sventolare piccole bandiere ucraine. Sintomo anzitempo del passaggio – di lì a pochi minuti – di una misura voluta per lungo tempo. Tre votazioni su tre, in rapida successione e con una maggioranza schiacciante. A Kiev 60 miliardi di dollari, 26 a Tel Aviv e nella Striscia di Gaza per aiuti umanitari, 8 nella regione dell’Indo-Pacifico. Sono stati 311 i favorevoli e 112 i contrari nella prima tornata. Per le due successive i ‘no’ si sono dimezzati a poco più di 50.
Nel testo sono contenute altre specifiche. Tra cui il via libera alla vendita dei beni russi che a causa dell’invasione in Ucraina erano stati sequestrati e congelati dalle autorità. Tutto il ricavato dalle vendite sarà ovviamente girato nelle case del governo di Volodymyr Zelensky. Non mancano neanche nuove sanzioni contro l’Iran, mentre inizia ad aleggiare la possibilità di una misura simile diretta però contro Israele. Nello stesso giorno è passata alla Camera anche una proposta di legge che potrebbe portare alla messa al bando del social cinese TikTok a livello nazionale.
Repubblicani divisi in casa
Il sì del Senato dovrebbe arrivare nella giornata di martedì 23 aprile, prima di finire sul tavolo del presidente Joe Biden. Quest’ultimo ha definito il successo nella Camera una «risposta alla chiamata della Storia, con una legislazione urgentemente necessaria». Ma a che prezzo? Neanche il tempo di godersi la vittoria che lo speaker repubblicano Mike Johnson riceveva, 6 mesi dopo la sua nomina, le prime minacce di sfiducia da parte della suo partito. O meglio, della porzione MAGA (Make America Great Again). Marjorie Taylor Greene, rappresentante dello Stato del Georgia, ha già preso su di sé l’impegno di escludere Johnson dal suo ruolo. E non pochi la sostengono.
Se gli aiuti sono definiti «un modello di business costruito sul sangue, sugli omicidi e sulla guerra in Paesi stranieri», quello che è difficile da digerire per i trumpiani è il sentimento di essere stati pugnalati alle spalle. Per mesi, con il voto dello stesso Johnson, avevano posto una condizione a un nuovo finanziamento in Ucraina: la luce verde sarebbe arrivata solo se nello stesso pacchetto fosse stato previsto un irrigidimento del confine texano-messicano e delle regole migratorie. Sabato, invece, Johnson ha proposto una legge incentrata su questi temi ma scollegandola completamente agli aiuti.
Bisogna però dire che Johnson è riuscito a fare un passo verso Trump. Nella misura, ricalcando le richieste del tycoon, è stata inserita la possibilità di rimborso fino a 10 miliardi di dollari da parte di Kiev in direzione Washington. Con un caveat: il Presidente può condonare quel prestito a partire dal 2026. Contando, comunque, che da febbraio 2022 a oggi il Congresso americano ha stanziato 113 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina.
Una realpolitik alla Churchill
«Preferisco mandare proiettili che giovani americani». La realpolitik di Johnson è evidente, anche nelle piccole mosse dietro le quinte con cui è riuscito a racimolare dalle file repubblicani i voti necessari. Cosa che gli è valsa il ringraziamento di Zelensky: «La democrazia e la libertà avranno sempre un significato globale e non verranno mai meno finché l’America contribuirà a proteggerle».
Alla posizione dello speaker ha fatto eco un altro repubblicano, il texano Michael McCaul. «Dobbiamo fare ciò che è giusto. Il male è in marcia. La Storia ci chiama e questo è il momento di agire, saremo giudicati dalle nostre azioni qui oggi. Mentre deliberiamo su questo voto, dovete porvi questa domanda: sono Chamberlain o Churchill?».