La cerimonia di conferimento del Premio Nobel per la Pace si è tenuta domenica 10 dicembre a Oslo. La vincitrice Narges Mohammadi, però, non ha potuto essere presente per ritirarlo. L’attivista iraniana è infatti detenuta nel carcere di Evin a Teheran dal 2021.
Una grande assente alla cerimonia
Là dove dovrebbe sedere la vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2023 c’è una sedia vuota. Narges Mohammadi, attivista iraniana per i diritti umani, è infatti ad oggi rinchiusa in un carcere di massima sicurezza, dove sta scontando una condanna per aver fatto propaganda contro il regime. A ritirare il premio per lei i figli diciassettenni, Kiana e Ali, esuli in Francia insieme al padre, il giornalista Taghi Rahmani.
Il Nobel arriva dopo oltre 25 anni di impegno per la difesa dei diritti umani in Iran. Un lavoro enorme, riconosciuto anche dal comitato, che la premia con questa motivazione: “Per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti”.
L’assegnazione del premio a Mohammadi era già stata comunicata il 6 ottobre. La speranza era che il governo iraniano potesse rilasciare la prigioniera almeno temporaneamente, permettendole di ritirare il riconoscimento. L’Iran, tuttavia, aveva immediatamente criticato la decisione, giudicando “faziosa e politica” la scelta del comitato.
Chi è Narges Mohammadi
Cinquantun anni, due figli, tredici arresti, trentun anni complessivi di pena. Questi i numeri di Narges Mohammadi, attivista iraniana in lotta contro il regime teocratico di Teheran dalla fine degli anni ’90. Leader femminista, Mohammadi si è a lungo battuta per i diritti delle donne in un Paese a guida islamica. Continua a farlo anche dal carcere di Evin, in cui è rinchiusa dal 21 aprile 2022, nonostante i problemi di salute, l’isolamento e le torture. Su di lei grava una condanna di otto anni, due mesi e 74 frustate.
La prima volta in cella risale al 1998, quando la donna aveva sostenuto la campagna alla presidenza del riformista Mohammad Khatami. A seguire, vari dentro-fuori dal carcere con l’accusa di propaganda contro il regime.
Un vero calvario sotto i colpi della polizia statale. Ma Mohammadi non si è piegata. «Sono certa che con i nostri sforzi, grazie alla perseveranza e alla protezione di chi si batte con noi per i diritti umani, vinceremo», ha dichiarato in un video-messaggio tre anni fa.
In particolare, durante i suoi anni di attivismo, Mohammadi ha condotto battaglie di stampo libertario, come la campagna contro la pena di morte e quella contro la cosiddetta “tortura bianca”, ovvero la perpetrazione di crimini psicologici nei confronti dei detenuti. Su questo tema la donna ha realizzato un libro, White torture: interviews with iranian women prisoners (2022), in cui racconta del suo periodo di isolamento in una sezione della prigione di Evin.
Il movimento nel Paese
Mohammadi ha una folta chioma di capelli ricci e folti, sciolti dal giogo del velo imposto dall’ayatollah. Nelle foto appare spesso sorridente e impavida. Simbolo di un Iran in piena rinascita, il volto di Narges rappresenta un barlume di speranza per le nuove generazioni. E, al pari di numerose altre attiviste nel Paese, ha dato origine a una vera e propria rivoluzione culturale che ha conosciuto un grande impulso dopo la morte di Mahsa Amini, la ventunenne curda deceduta nel settembre del 2022 mentre era sotto la custodia della polizia morale “per non aver indossato correttamente il velo”.
Dalla scomparsa della ragazza, in Iran si è respirata un’aria di cambiamento. Migliaia di giovani hanno occupato le principali piazze del Paese al grido di “Zan. Zendegi. Azadi” (“Donna, Vita, Libertà”).
Hanno deciso di dire basta al velo e hanno chiesto a gran voce più democrazia. Dopo più di quarant’anni di sottomissione ai dettami del Corano, la popolazione insorgeva con audacia al cospetto del governo religioso in carica.
La risposta delle forze di sicurezza, però, è stata brutale, e centinaia di persone hanno perso la vita negli scontri. Parecchie famiglie delle vittime hanno testimoniato di arresti arbitrari, torture e stupri commessi dalle autorità; in sette casi si è giunti addirittura all’impiccagione di manifestanti.
La violenza della repressione ha finito per smorzare l’ardore iniziale, riducendo i sussulti rivoluzionari nel corso dei mesi.
In un contesto di estrema costrizione come questo, figure come Narges Mohammadi possono contribuire a dare nuova linfa al grido di libertà degli iraniani. In una lettera del giugno scorso, l’attivista incoraggiava i giovani a non abbandonare la lotta.
«Sentite in Iran il rumore sordo del muro della paura che s’incrina? Presto lo sentiremo crollare grazie alla volontà implacabile, alla forza e alla determinazione incrollabile degli iraniani».
Il discorso
Parole incisive, un inno ad agire, del tutto simile a quello pronunciato in Norvegia dai figli. Ali e Kiana, che non vedono la madre da nove anni, ne trasmettono il messaggio al momento di accettare il premio. Ai microfoni del municipio di Oslo, la voce della ragazza legge le parole della madre: «Scrivo questo messaggio da dietro le alte, fredde mura di una prigione.
Sono una donna mediorientale da una regione che, nonostante la sua ricca civilizzazione, è intrappolata tra la guerra, il fuoco del terrorismo, e l’estremismo». Nel corso del discorso, l’attivista definisce la Repubblica islamica iraniana come «un regime religioso tirannico e misogino» e loda il movimento “Donna, Vita, Libertà” come «un acceleratore del processo democratico».
Poi le sue parole passano al plurale, in rappresentanza di tutte le donne che si ribellano a un governo che le vorrebbe passive e sottomesse: «Crediamo che l’hijab obbligatorio imposto dal governo non sia né un obbligo religioso né una tradizione culturale, ma piuttosto un mezzo per mantenere l’autorità e la sottomissione in tutta la società».
Dopo le critiche al regime, l’attivista trova anche l’occasione per parlare apertamente di resistenza: «Oggi la gioventù dell’Iran ha trasformato le strade e gli spazi pubblici in un’arena per la resistenza civile diffusa. La resistenza è viva, e la lotta tiene duro». Quasi a dimostrazione di questo, proprio nel giorno della cerimonia, Narges Mohammadi inizia uno sciopero della fame per solidarietà con la minoranza religiosa bahà’i.
Senza smettere di lottare dalla cella in cui è rinchiusa, le sue parole urlano speranza: «Ho fiducia che la luce della libertà e della giustizia brillerà sulla terra dell’Iran. Allora celebreremo la vittoria della democrazia e dei diritti umani sulla tirannia e sull’autoritarismo, e l’inno del trionfo del popolo nelle strade dell’Iran risuonerà in tutto il mondo».
Premio Sakharov: storia di un altro riconoscimento non ritirato
Come Narges Mohammadi non ha potuto presenziare a Oslo, così anche i genitori e il fratello di Mahsa Amini non saranno presenti mercoledì 13 dicembre a Strasburgo, per ritirare, a nome della figlia, il Premio Sakharov.
La morte della ragazza iraniana è diventata la scintilla capace di accendere le proteste che tuttora imperversano nel Paese. Per questo motivo, Mahsa Amini è stata insignita del Premio, un riconoscimento istituito dal Parlamento europeo per premiare personalità o organizzazioni che abbiano dedicato la loro vita alla difesa dei diritti umani e delle libertà individuali.
«Ai familiari è stato vietato di salire sul volo che li avrebbe portati in Francia nonostante avessero il visto», ha dichiarato all’AFP l’avvocato della famiglia in Francia, Chirinne Ardakani. «I loro passaporti sono stati confiscati», ha aggiunto.
A nulla per il momento sembra valere l’appello della Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola: «Chiedo al regime iraniano di ritirare la decisione di vietare il viaggio alla madre, al padre e al fratello di Mahsa Amini. Il loro posto è all’Eurocamera per ricevere il premio Sakharov, insieme alle coraggiose donne iraniane. La verità non può essere messa a tacere».
A cura di Alessandro Dowlatshahi e Davide Aldrigo