La madre di Navalny non ha paura di dire la sua in un messaggio video. «Vogliono portarmi in un cimitero con una tomba appena fatta e indicarmi, qui giace tuo figlio».
Lyudmila Navalnaya, madre 69enne del defunto leader dell’opposizione russa Alexei Navalny ha incontrato il presidente Usa Joe Biden il 22 febbraio 2024. Con lei la vedova Yulia e la figlia Daria. A seguito dell’incontro il presidente Usa avrebbe promesso di annunciare nuove sanzioni contro la Russia.
Come è morto, come sarà sepolto
La comunicazione della morte di Navalny è stata data alla madre Lyudmila indicando come ora della morte le 14:17 ora locale del 16 febbraio 2024 in una colonia penale dell’Artico.
Lupo Polare è il nome della colonia penale n. 3 in cui Aleksei Navalny si trovava dallo scorso dicembre. La prigione di massima sicurezza – tra le più dure del sistema carcerario russo – si trova a Kharp, nella regione autonoma di Yamalo-Nenetsk. Sita a quasi 2 mila km da Mosca, la zona è nota per gli inverni intensi e rigidi.
Quando l’avvocato dell’ex leader dell’opposizione russa e sua madre sono arrivati alla colonia non gli è stato permesso di entrare. Nel bel mezzo dell’Artico, la 69enne è stata costretta a parlare al citofono con il servizio di guardia. «Qui il cadavere non c’è, l’hanno trasferito all’obitorio di Salekhard per l’autopsia».
Alla fine è stato detto loro che la causa della morte di Navalny era la “sindrome della morte improvvisa“. Un termine vago, che si riferisce a diverse sindromi cardiache che causano un arresto improvviso e la morte.
Le minacce e l’insabbiamento
«Ho firmato il certificato di morte. Avrebbero per legge dovuto restituirmi subito il corpo, ma non lo hanno fatto. Invece mi ricattano, vogliono definire le condizioni del come, dove e quanto seppellire mio figlio, ricevono ordini o dal Cremlino o dalla sede centrale della Commissione inquirente. Vogliono che la sepoltura avvenga in segreto, senza un saluto», spiega Lyudmila alla telecamera.
Ma la donna, proprio come il figlio, non si piega facilmente alle imposizioni delle autorità russe. «Registro questo video perché hanno iniziato a minacciarmi – continua Lyudmila -, a dire che infieriranno sul corpo di Alexei se non accetto un funerale segreto». La madre di Navalny ha citato esplicitamente il nome dell’ispettore Ropaev come autore delle minacce, e di aver preteso la restituzione immediata del corpo del figlio.
Il metodo del “pugno al cuore”
Vladimir Osechkin, fondatore del gruppo per i diritti umani Gulagu.net, ha rivelato al quotidiano britannico Times alcune indiscrezioni. Secondo l’attivista Navalny sarebbe stato indebolito di proposito sottoponendolo a temperature sotto lo zero prima di essere colpito con una classica tecnica del Kgb, i servizi segreti russi: il “pungo al cuore“. Di cosa si tratta?
Parliamo di una tecnica medica da usare quando un individuo presenta un’aritmia. L’operatore si pone di fianco al paziente, appoggiato su una superficie dura, e scaglia un pugno verso lo sterno, all’altezza del cuore. Tutto avviene in una sola, precisissima manovra, effettuata entro 30 secondi dall’arresto cardiaco. Se effettuata correttamente, l’arresto cardiaco è sventato.
Ma la stessa tecnica si può usare con intenti omicidi. I soggetti designati vengono prima esposti a temperature polari per indebolire i loro muscoli cardiaci, e poi colpiti in pieno petto. L’impatto, in condizioni simili, è tale da provocare un raro evento denominato commotio cordis, ovvero l’arresto cardiaco improvviso derivante da un colpo alla parete toracica anteriore.
«Penso che prima abbiano distrutto il suo corpo (di Navalny) tenendolo fuori al freddo per lungo tempo e rallentando la circolazione sanguigna al minimo. E poi diventa molto facile uccidere qualcuno, in pochi secondi, se l’agente ha una certa esperienza», ha dichiarato Osechkin.
«È un vecchio metodo delle forze speciali del Kgb. Hanno addestrato i loro agenti a uccidere un uomo con un pugno al cuore, al centro del corpo. Era un segno distintivo del Kgb», ha aggiunto lo stesso Osechkin. La testimonianza gli sarebbe arrivata da ex prigionieri russi nell’Artico, i cui compagni detenuti sarebbero stati uccisi in questo modo.