Andy Murray annuncia, tra le lacrime, il suo ritiro dal mondo del tennis. Troppo forti i dolori all’anca che, ormai da un anno e mezzo, hanno costretto l’ex numero 1 al mondo a un’attività limitata e a un rendimento ben al di sotto dei livelli raggiunti nell’arco della sua carriera. «Gli Australian Open potrebbero essere il mio ultimo torneo, vorrei continuare fino a Wimbledon – ha detto –ma non so se ci riuscirò. Ho troppo dolore, è molto dura».
Una storia professionale iniziata sotto l’etichetta di “predestinato” e di speranza del tennis britannico. Erano anni, infatti, che la patria del tennis moderno non produceva talenti degni di reggere i paragoni con i campioni del passato e i risultati giovanili dello scozzese, dai successi nei tornei juniores alla scalata della classifica ATP che lo ha portato nella top ten a soli 20 anni, lasciavano solo buone speranze.
Andy Murray si fa notare immediatamente, nel bene e nel male, per le sue caratteristiche tecniche, atletiche e psicologiche. Un tennis completo, senza sbavature, fatto di colpi potenti da fondo campo, una corsa in orizzontale e in verticale quasi unica e soprattutto un’abnegazione invidiabile. Ma anche nervi tesi, poca pazienza e una tendenza a demoralizzarsi facilmente. Celebri, quasi quanto i suoi colpi, le sfuriate contro se stesso e il suo angolo, le racchette spaccate e le proteste in direzione dei giudici di sedia.
Andy Murray rappresenta uno dei migliori tennisti del nuovo millennio e allo stesso tempo uno dei più grandi rimpianti di questo sport. Il suo palmares comunque parla chiaro: 45 titoli in totale nell’era dei Big Three (Federer, Nadal e Djokovic), di cui 3 Slam (2 Wimbledon e uno US Open), 9 Masters 1000 e un ATP World Tour Finals, ai quali vanno sommati soprattutto i due trionfi alle Olimpiadi di Londra (sull’erba di Wimbledon) e di Rio de Janeiro. Soprattutto, però, ha il merito di aver riportato tra le mani di un britannico, a distanza di 77 anni dall’ultima vittoria di Fred Perry, il trofeo di Wimbledon.
Rimane, tuttavia, una punta di rammarico per un giocatore che, viste le premesse, avrebbe potuto collezionare ancora più vittorie. Pesano soprattutto le otto finali Slam perse (tutte contro Djokovic e Federer) che non gli hanno mai permesso di essere paragonato ai tre grandi degli anni 2000. Nonostante ciò Andy Murray ha raggiunto il suo apice nel 2016, anno in cui è divenuto per la prima e unica volta in carriera numero 1 al mondo, il solo ad esserci riuscito in quest’epoca dominata dai Big Three.
L’edizione di Wimbledon 2017 ha segnato un punto critico – e, a quanto pare, di non ritorno – della sua carriera: Murray viene eliminato ai quarti di finale per via di problemi all’anca e scopre di soffrire di “conflitto femoro-acetabolare”, un’anomala morfologia dell’articolazione che crea un conflitto tra la parte prossimale del femore e l’acetabolo ai gradi estremi del movimento. Decide così di rinunciare alla stagione sul cemento americano e di operarsi a inizio 2018, nel tentativo di ritornare competitivo.
Andy Murray, tuttavia, non riesce più a riprendersi. Inutili i tentativi di tornare agli antichi fasti. Lo scozzese colleziona solo risultati negativi, ma soprattutto prestazioni fisiche poco incoraggianti. Fino alla più difficile delle decisioni. «Smetto perché voglio tornare a fare le cose comuni, come mettere una scarpa o un calzino, senza avere dolore – ha spiegato – Le ho provate tutte per cercare di far stare meglio la mia anca».