«Stare insieme aiuta a superare alcune fragilità della malattia» dice Tiziana Bianchini responsabile di A77, la prima casa alloggio per malati di HIV/AIDS a essere stata aperta a Milano. Fondata nel 1988, in collaborazione con la Caritas, si trova nel quartiere Barona e oggi ospita nove persone (6 uomini e tre donne, tutti dai 55 anni in su, eccetto una signora di 45 anni) più tre in centro diurno. Storie simili si sono incrociate in questa struttura. «Sono persone che hanno scoperto tardi di essere sieropositive e nel frattempo il loro fisico si è molto debilitato, spesso non sanno di aver avuto un comportamento a frattempo il loro fisico si è molto debilitato, spesso non sanno di aver avuto un comportamento a rischio, come un rapporto sessuale non protetto» spiega Tiziana.
«L’anno scorso abbiamo accolto un signore di 70 anni che aveva appena scoperto di essere sieropositivo – continua – pensava di godersi la pensione e invece si è ritrovato a fare i conti con l’AIDS. Le figlie, due signore di quarant’anni, hanno dovuto prepararsi ad accoglierlo perché non poteva stare da solo». La malattia da HIV indebolisce a tal punto il sistema immunitario che qualsiasi piccolo problema di salute può degenerare in qualcosa di grave: un semplice raffreddore si può trasformare in polmonite. Inoltre l’AIDS può colpire le funzioni cerebrali.
«Il signore di 70 anni è arrivato in sedia a rotelle, perché aveva avuto un ictus. Il nostro progetto con lui era farlo riprendere a camminare bene e in sette mesi è uscito da qua con le sue gambe» racconta la responsabile. Per chi si trova in una situazione del genere non ci sono molte alternative a disposizione. Non esistono reparti ospedalieri a lunga degenza per malati di AIDS, spiega Tiziana. Una volta passata la fase acuta, le possibilità sono tornare a casa o entrare in una di quelle poche Rsa che ospitano le persone con questo tipo di malattia (e anche con una certa età). Le case alloggio formano, quindi, un sistema socio sanitario intermedio per colmare questo gap. «L’obiettivo è far sì che le persone riacquisiscano la propria autonomia. Quello che succede qua è rimettersi in gioco dopo aver preso una batosta» dice Tiziana.
Una giornata tipo
Come in una vera casa, gli ospiti mangiano insieme (c’è anche chi cucina per gli altri) e a volte si organizzano delle uscite, al ristorante o in museo per esempio. La giornata tipo varia molto e dipende anche dagli impegni sanitari di ognuno. Inoltre, ci sono delle attività che gli ospiti svolgono tutti insieme. Due volte al mese A77 va in diretta con una radio che si chiama “Brani d’altri tempi”. In ogni puntata viene approfondito un tema, scelto insieme da ospiti ed educatori, e vengono presentati i brani che andranno in onda. «Quando c’è la puntata: fiesta, si balla» dice ridendo Tiziana. Inoltre, in A77 c’è anche un piccolo orto sul terrazzo con delle piantine di peperoncino.
Gli ospiti essiccano i frutti e li trasformano in olio piccante perché «così come trasformiamo le vite così trasformiamo il cibo» racconta Bianchini. Per fare tutto questo, la casa del villaggio Barona possiede nel suo organico un infermiere che lavora sulla preparazione delle terapie e spiega agli ospiti perché è importante prendere i farmaci con un rigore ferreo, cercando di abituarli a curarsi in autonomia; cinque-sei volontari che aiutano nella gestione della casa e nelle varie attività e un fisioterapista, che arriva da un istituto sanitario accreditato. A77 è solo una delle 60 strutture sul territorio nazionale, che comprendono anche i centri diurni, luoghi aperti solo di giorno in cui i malati di AIDS possono passare del tempo insieme e svolgere diverse attività.
La situazione
Alla fine degli anni ’80, le persone sieropositive hanno iniziato a combattere non solo contro la malattia, ma anche contro uno stigma sociale che li ha bollati come omosessuali o tossicodipendenti e che li ha confinati ai margini della società. Proprio in quel periodo sono nate le case alloggio per persone malate di AIDS. Volontari, medici, associazioni vicine alla Chiesa cattolica hanno deciso di mobilitarsi per fronteggiare il problema. Il progetto della prima casa alloggio in Italia, lanciato pubblicamente a Roma, è stato bloccato da una raccolta firme nel quartiere Parioli, i cui abitanti temevano che questo potesse attrarre i tossicodipendenti.
Di fronte a questa situazione, nel 1997, le case alloggio esistenti hanno deciso di creare il Coordinamento Italiano delle Case Alloggio (C.I.C.A.). Due le finalità principali: una istituzionale, di rappresentanza unitaria di fronte a organismi a livello nazionale e internazionale; l’altra sociale, di collegamento con il territorio. Oggi, il Coordinamento nazionale conta 42 enti, tra associazioni e cooperative, che gestiscono circa 60 strutture tra case-alloggio, dove gli ospiti abitano stabilmente, e centri diurni, che invece. In totale, sono 600 le persone accolte. Quasi tutte presentano problematiche di diverso tipo: hanno fragilità legate a residui di infezioni o tumori; dipendenze; provengono da esperienze segnanti come carcerazioni prolungate e vita di strada; non hanno più casa, né lavoro e hanno invece relazioni complicate con i parenti. La Lombardia ne ha più di tutte: 23; che ospitano 222 persone in residenzialità h24 e 30/40 persone in centri diurni.
Come spiega il presidente del coordinamento regionale delle case-alloggio, Giovanni Gaiera, queste strutture, a partire dagli anni 2000 si sono reinventate: da luoghi che accompagnavano le persone alla fine della loro vita, sono diventate luoghi di accoglienza e di ripartenza. Tutte le case alloggio per malati di AIDS seguono i propositi della Carta di Sasso Marconi redatta nel 1994 dai loro rappresentanti. Il principio fondamentale contenuto in questa “carta costituzionale” è quello di fornire «Un’accoglienza “abitativa” transitoria» per le persone con AIDS che non hanno casa o famiglia. Un luogo nel quale ci si prende cura delle persone «in termini complessivi, non solo sanitari, avendo come obiettivo la costruzione di un percorso» che possa portare alla piena autonomia e indipendenza del malato e ad un suo possibile reinserimento nella società.