Milano, al Cpr di via Corelli i migranti vivono in condizioni disumane

Milano, via Corelli 39. Una stradina adiacente al Viadotto Parchi si dirama per un centinaio di metri. Fino a interrompersi dinnanzi a un cancello che segna l’ingresso di una struttura dall’aspetto imponente. Due militari presiedono il luogo giorno e notte. L’accesso, i video e le foto sono severamente vietati. Il complesso ha le sembianze di un carcere: alte mura in cemento, telecamere a vista e camionette dell’esercito. Ma l’aspetto non deve ingannare il lettore. Altro non è che il Centro di permanenza e rimpatrio per i migranti (Cpr), un luogo dove un cittadino straniero può essere trattenuto in attesa dell’esecuzione di provvedimenti di espulsione.

I trattenuti

Gli “ospiti” della struttura non sono dei veri e propri detenuti perché «non sono stati condannati in sede penale per aver commesso un reato», spiega l’avvocato esperta di diritto dell’immigrazione Miriam Fagnani. Anche se c’è comunque una privazione della loro libertà personale, ma in via amministrativa.

Il termine corretto da utilizzare infatti è “trattenuti”, visto che «sono destinatari di un provvedimento amministrativo – chiarisce ancora la legale – che deve essere convalidato da un giudice». Si trovano nel Cpr perché sono in attesa di essere espulsi dal nostro Paese e per il solo tempo necessario a organizzare il loro rimpatrio. Non possono uscire, lavorare o utilizzare il telefono senza autorizzazione.

L’indagine della Gdf

Non è una prigione, ma ci assomiglia molto: le condizioni di vita dei migranti sono ai limiti della disumanità. Lo scorso primo dicembre la struttura è stata oggetto di un’ispezione della Guardia di finanzia. Dall’inchiesta, per frode in pubbliche forniture e turbativa d’asta, è emerso che i trattenuti – tra le altre cose – non ricevevano assistenza medica e mangiavano cibo avariato.

Miriam Fagnani ha assistito alcuni ex ospiti del Centro. E ci ha raccontato i dettagli del loro disagio. «Parlavano di alimenti scaduti e di scarsità di abbigliamento: hanno gli stessi vestiti di quando sono entrati nel Cpr, gli viene fornito solo un cambio all’arrivo. I servizi che dovrebbero essere garantiti sono carenti – precisa l’avvocato – come l’informativa legale, l’aiuto psicologico e psichiatrico, l’infermeria, la mediazione culturale e linguistica. Non è prevista nessuna attività ricreativa. Ci sono stati anche tentativi di suicidio».

Una voce dall’inferno

Anche dall’Asgi, Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, arrivano conferme. Giulia Vicini è socia dell’organizzazione e, come avvocato, ha assistito molti trattenuti del Cpr di via Corelli. «I nostri clienti mi hanno raccontato tutto e mostrato anche dei video dall’interno».

In particolare, un ragazzo rilasciato da appena due settimane le ha rivelato alcuni dettagli sconvolgenti: «Spesso gli davano da mangiare della carne di maiale, nonostante i divieti della sua religione. Mi ha confessato che, da parte di tutti i suoi compagni, gli atti di autolesionismo erano frequenti. E non c’era nessuno che interveniva a curare chi si feriva. Anzi spesso venivano repressi con la forza. A lui, come agli altri, venivano somministrati psicofarmaci. Quando arrivi nel Cpr – conclude l’avvocato Vicini – ti forniscono una terapia, non so se con il consenso o meno del paziente. Ma sicuramente senza prescrizione medico-psichiatrica».

Un caso diverso

Ma non tutte le realtà che si occupano di immigrazione sono identiche. A pochi metri di distanza dal Cpr di via Corelli, ad esempio, c’è il CAS di via Aquila. Si tratta di un Centro di Accoglienza Straordinaria dove risiedono circa 300 stranieri, che a differenza del Cpr sono regolarmente presenti sul territorio italiano. Alcuni di loro sono dotati di permesso di soggiorno, altri sono in attesa di riceverlo.

Cas_Aquila_Migranti
Il CAS di via Aquila

A qualunque ora del giorno si assiste a un via vai continuo di persone che entrano ed escono dalla struttura. E, secondo quanto riferiscono i residenti del Centro, le condizioni di vita e salute non sembrano così drammatiche.

François, per esempio, viene dalla Costa D’Avorio. È in Italia da due anni e sta ancora imparando la nostra lingua. Come molti suoi compagni, fa il rider per note catene di distribuzione alimentare. «Nel CAS non ci trattano male – sostiene François – ci danno da mangiare, spesso riso e pasta. E anche se le condizioni non sono ideali, ci consentono di condurre uno stile di vita adeguato al nostro sostentamento».

Un punto di svolta?

Ma lo stesso non avviene nei Cpr. E anzi, chi esce da quello di via Corelli, difficilmente riesce ad accedere a tutele legali dopo aver subito gli abusi. «Astrattamente la persona rilasciata potrebbe fare un’azione di risarcimento del danno, oppure un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – sottolinea l’avvocato Fagnani –  Ma concretamente non è mai successo». Prima di tutto perché «la prova è difficile da fornire». E poi perché «le persone che escono dal Centro non hanno cognizione di avere accesso a questo tipo di soluzioni legali». E in ogni caso, una volta rimpatriati, di loro si perdono le tracce.

Mercoledì 13 dicembre la vicenda è arrivata a un punto di svolta. È stato infatti disposto il sequestro del ramo d’azienda di Martinina S.r.l., la società che gestisce il Cpr di via Corelli. Un provvedimento che, se convalidato dal GIP, porterà alla nomina di un amministratore giudiziario per gestire la struttura. «Come Asgi – dichiara l’avvocato Vicini – siamo felici del sequestro perché altrimenti, nonostante l’indagine della Procura, la Martinina S.r.l. avrebbe continuato a occuparsi del Cpr in forza dell’appalto pubblico».

 

 

Valentina Cappelli

Giornalista praticante e dottoressa in Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano. Aspirante giornalista televisiva, mi appassionano le tematiche di cronaca giudiziaria, politica, cultura e spettacolo.

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