Sono trascorsi tre anni dalla scomparsa di Giulio Regeni. Tre anni di silenzio, di ingiustizia e di dolore. Tre anni però che in tantissimi non riescono a dimenticare.
Giulio nasce a Trieste il 15 gennaio 1988. Si apre al mondo fin da subito: ancora minorenne si trasferisce prima negli Stati Uniti, poi nel Regno Unito. E piano piano, il Medio Oriente diventa, fin da giovanissimo, un vero e proprio chiodo fisso. Nel 2011 si laurea all’Università di Leeds in arabo e scienze politiche e nel 2012 e 2013 vince il premio “Europa e giovani” grazie alle sue ricerche e approfondimenti proprio sul Medio Oriente.
Scompare il 25 gennaio 2016 a Il Cairo, ma non era la prima volta che si trovava in Egitto. Aveva già lavorato lì per un mese come stagista per l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale e stava conseguendo, all’Università di Cambrige, un dottorato di ricerca in studi sullo sviluppo con la professoressa egiziana Maha Abdelrahman che lo aveva spinto a tornare in Egitto per studiare la situazione dei venditori ambulanti che avevano dato vita ad un sindacato indipendente molto attivo nei moti di protesta. Durante la sua permanenza in Egitto pubblica, sotto lo pseudonimo Antonio Druis, alcuni articoli in cui viene descritta la situazione del post rivoluzione egiziana del 2011.
Prima di sparire invia un messaggio alla fidanzata scrivendole che stava uscendo. Poco dopo però una sua amica, conosciuta a Cambridge, denuncia sul suo profilo Facebook la scomparsa del ricercatore. Sono giorni di attesa, di ansia e di speranza. Il 3 febbraio 2016 però, in un fosso sulla strada del deserto Cairo-Alessandria, alla periferia del Cairo, viene trovato il cadavere di Giulio nudo dalla vita in giù. Il giovane ricercatore ha subito atroci torture prima che qualcuno gli spezzasse l’osso del collo. Denti rotti, il lobo dell’orecchio mozzato, bruciature di sigarette, enormi lividi, lesioni e fratture multiple. La madre dirà poi di averlo riconosciuto solo dalla punta del naso.
Subito dopo il ritrovamento del corpo, il generale Khaled Shalabi dichiarò che Regeni era morto a causa di un incidente stradale. Successivamente, la polizia egiziana dichiarò che l’omicidio era avvenuto per motivi personali o per lo spaccio di stupefacenti. L’Egitto inizialmente offrì piena collaborazione alle autorità italiane. Peccato però che questa sia stata scarsa o quasi inesistente. Gli investigatori italiani hanno potuto interrogare pochi testimoni e solo per alcuni minuti; le riprese video della stazione metropolitana, dove fu visto Regeni per l’ultima volta, furono cancellate e non è stato possibile ricevere i tabulati telefonici – consegnati poi in un secondo momento – del quartiere dove viveva il ricercatore. Solo dopo alcuni mesi, è arrivata l’ammissione, da parte dei pubblici ministeri egiziani, che Regeni era stato sottoposto ad indagini e sorveglianza.
Il caso ha scatenato numerose polemiche nella comunità italiana e internazionale. Da un lato, c’è chi ha accusato il governo egiziano e i servizi segreti di avere un ruolo chiave nell’omicidio; dall’altro c’è chi invece ha assunto posizioni più “morbide” al fine di non danneggiare le relazioni internazionali tra il nostro Paese e l’Egitto. Sin da subito il governo egiziano ha sostenuto di non essere coinvolto nell’omicidio. Ha, infatti, accusato i Fratelli Musulmani di essere gli unici responsabili sostenendo che l’obiettivo era quello di destabilizzare i rapporti tra i due paesi. Resta il fatto però che il 10 marzo 2016, il Parlamento europeo a Strasburgo ha approvato una risoluzione che ha condannato la tortura e l’uccisione di Regeni e le continue violazioni dei diritti umani da parte del governo di al-Sisi in Egitto.
Ad oggi, la Procura di Roma ipotizza che il ricercatore fu sequestrato dalla National Security, il servizio segreto civile egiziano. Il procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco, lo scorso dicembre, hanno iscritto sul registro degli indagati i nomi di cinque militari egiziani: il generale Tabiq Sabir, due colonelli Uhsam Helmi e Athar Kamal Mohamed Ibrahim, il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif, e l’assistente Mahmoud Najem. Alcuni giorni fa però hanno dichiarato che senza la collaborazione delle autorità egiziane è, quasi impossibile, proseguire nelle indagini. Il caso rischia l’archiviazione e sono tante le pressioni nei confronti del governo italiano per una soluzione.
A distanza di tre anni, esiste ancora una parte di Italia che non vuole dimenticare. Lo ha ribadito anche Paola, la madre di Giulio, che su Facebook scrive: «Non molliamo caro Giulio». Saranno infatti tante le manifestazioni che si svolgeranno, in un centinaio di piazze italiane, per ricordarlo e per chiedere ancora una volta e a gran voce #veritàperGiulioRegeni.