Tra ultimatum di dimissioni, raid contro i narcos e chiusure dello spazio aereo, continua lo scontro tra il presidente americano Donald Trump e il leader venezuelano Nicolas Maduro. Ad aumentare le tensioni è stata la chiamata avvenuta tra i due domenica scorsa, in cui il tycoon ha intimato al suo omologo di dimettersi.
Via dal Venezuela
Trump ha confermato la telefonata, senza però fornire ulteriori dettagli. «Non voglio commentare. Non direi che sia andata bene o male». È stato poi il Miami Herald a rivelare poi i contenuti della conversazione, mediata probabilmente da Brasile, Qatare e Turchia. Il leader degli Stati Uniti avrebbe lanciato un messaggio chiaro a Maduro. Dimettersi e lasciare il Venezuela immediatamente, garantendo il salvacondotto a se stesso, alla moglie Cilia Flores e al figlio.
Il fallimento della chiamata

La telefonata è fallita per tre concessioni richieste da Maduro e le successive negazioni statunitense. In primis un’amnistia globale per tutti i crimini commessi da lui e dai suoi collaboratori. Poi, sostiene il Miami Herald, «mantenere il controllo delle forze armate, come avvenne in Nicaragua nel 1991 con Violeta Chamorro, in cambio della promessa di libere elezioni». Infine, la possibilità di non dimettersi subito, ma nell’arco di 18 mesi. Tre misure negate da Washington e che hanno freddato ulteriormente i rapporti. Sempre domenica, a un evento dedicato alla coltivazione del caffè, Maduro è riapparso in scena. Il presidente era assente da giorni ed era già dilagata la notizia di un suo possibile esilio. Al pubblico, il capo di Caracas ha precisato che il Venezuela è «indistruttibile, intoccabile, imbattibile», senza tuttavia nominare l’avversario statunitense.
La riunione alla Casa Bianca
Di fronte al “no” ricevuto, Trump ha riunito il “consiglio di guerra”: il segretario di Stato Rubio, il capo del Pentagono Peter Hegseth, il capo degli Stati maggiori riuniti Dan Caine e i consiglieri Susie Wiles e Stephen Miller. Il tycoon ha accusato Maduro di guidare il Cartel de los Soles, bollato come organizzazione terroristica, e ha posto una taglia di 50 milioni di dollari sul leader di Caracas. Sfruttando questa situazione, Trump ha intimato possibili attacchi via terra con lo scopo di far cadere il regime, anche se poi ha specificato che non saranno raid imminenti. Ciò si aggiunge alla precedente chiusura dello spazio aereo sopra e intorno al Venezuela.
L’escalation con i raid
Le tensioni tra i due Paesi erano già tese a fine agosto, quando le Forze armate statunitensi hanno rafforzato la loro presenza nei Caraibi, con dieci navi da guerra, un sottomarino nucleare, vari caccia F-35 e la USS Gerald R. Ford, la portaerei più grande del mondo. Ma proprio questo aumento ha portato a un’ulteriore escalation: secondo alcuni repubblicani, riporta il Washington Post, Hegseth avrebbe autorizzato a sparare contro i sopravvissuti ad un attacco alle imbarcazioni dei narcos. Secondo il manuale delle leggi guerra del Pentagono, l’azione è illegale, quindi Hegseth avrebbe compiuto un’azione criminale. Per placare gli animi, è subito intervenuta la portavoce Karoline Leavitt, sottolineando che il capo del Pentagono aveva dato solo l’ordine generale di colpire l’imbarcazione, non di uccidere i due naufraghi. Poi un secondo raid è stato deciso dall’ammiraglio Frank Bradley, che «ha agito pienamente entro i suoi poteri e nel rispetto della legge».

Per appurare se la responsabilità ricada sul presidente Trump, il capo del Pentagono Hegseth o l’ammiraglio Bradley, è stata apertura un’inchiesta da parte della Commissione Forze Armate per determinare i fatti. Il problema è duplice. Da una parte determinare gli artefici dell’azione: se il fautore dovesse essere stato Heghset, secondo il New York Times, il presidente potrebbe considerare la sua cacciata; altrimenti se la colpa fosse di Bradley ci potrebbero essere ripercussioni per le forze armate. Dall’altra bisognerà misurare l’impatto che l’attacco avrà nelle relazioni con il Venezuela.