28 maggio 2019, sono trascorsi 45 anni dalla strage di Piazza della Loggia. «Le innocenti vite spezzate quella mattina del 28 maggio 1974, lo strazio dei familiari, il dolore dei feriti, l’oltraggio inferto a Brescia e all’intera comunità nazionale dai terroristi assassini sono parte della memoria indelebile della Repubblica. In questa giornata di anniversario si rinnovano i sentimenti di solidarietà di tutti gli italiani, e con essi desidero esprimere la mia vicinanza a coloro che più hanno sofferto e a quanti hanno contribuito negli anni a quella straordinaria reazione civile e democratica, che ha fatto fallire la strategia eversiva». A dirlo è il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
«Con l’attentato alla manifestazione antifascista organizzata dai sindacati, i terroristi volevano seminare paura per comprimere le libertà politiche. Una catena eversiva legava la strage di Piazza della Loggia ad altri tragici eventi di quegli anni: la democrazia è stata più forte e ha sconfitto chi voleva violarla. L’impegno di uomini dello Stato e il sostegno popolare hanno consentito di portare a compimento il percorso giudiziario. Particolare gratitudine va espressa all’Associazione dei Familiari delle vittime, la quale è riuscita sempre ad animare, anche in momenti difficili, memoria attiva, partecipazione responsabile, impegno per la verità», conclude Mattarella.
Era il 28 maggio 1974 quando alle ore 10:12, in una mattina piovosa, un boato lacera il cielo in Piazza della Loggia a Brescia. All’interno di un cestino c’è infatti una bomba con 700 grammi di esplosivo da cava. L’ordigno esplode durante una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista per rispondere agli attentati di destra avvenuti in città nei primi mesi dell’anno. In Piazza della Loggia muoiono otto persone e ci sono un centinaio di feriti. Da lì inizia un processo che continuerà fino ai giorni nostri.
Il 2 luglio del 1979 infatti arriva la prima sentenza. I giudici della Corte d’assise di Brescia condannano all’ergastolo Ermanno Buzzi e a dieci anni Angelino Papa a cui poi concedono la seminfermità mentale perché sarebbe stato plagiato dal coimputato. Alla vigilia del processo d’appello, Buzzi viene trasferito dal carcere di Brescia a quello di Novara. A 48 ore dal suo arrivo, due detenuti lo uccidono strangolandolo con i lacci delle scarpe.
Il 2 marzo del 1982 i giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia scagionano tutti gli imputati, Papa compreso, e nelle motivazioni definiscono Buzzi «un cadavere da assolvere». Il 30 novembre 1983 la Cassazione annulla la sentenza d’appello per alcuni imputati e dispone un nuovo processo per Nando Ferrari, Angelino e Raffaele Papa e Marco De Amici. Nei loro confronti il processo bis di secondo grado viene celebrato a Venezia: per tutti è assoluzione per insufficienza delle prove.
Il 23 maggio 1993 il giudice istruttore Zorzi, accogliendo la richiesta del pm, proscioglie ‘per non aver commesso il fatto’ gli ultimi imputati dell’inchiesta bis. Nella sentenza Zorzi scrive che l’ordigno esploso in Piazza della Loggia non fu «strumento di una strage indiscriminata, di un atto di terrorismo puro ma di un vero e proprio attacco diretto e frontale all’essenza della democrazia». Chiuso il capitolo, dalle rivelazioni dei pentiti Carlo Digilio e Martino Siciliano arrivano gli elementi utili per una terza inchiesta. La nuova pista individua la ‘cabina di regia’ della strage nel vertice della formazione neofascista Ordine Nuovo del Triveneto. I pubblici ministeri di Brescia, Roberto Di Martino e Francesco Piantoni, chiedono l’arresto di tre indagati: Carlo Maria Maggi, la figura centrale della relazione del Sid ispirata dalla ‘fonte Tritone’; Delfo Zorzi, considerato il suo ‘braccio destro’, indagato anche per Piazza Fontana e, nel frattempo, fuggito in Giaappone; Maurizio Tramonte, la ‘fonte Tritone’. Maggi non viene arrestato per l’età e le precarie condizioni di salute. L’unico a finire in carcere è Tramonte, che comincia a collaborare con i magistrati. Vengono chiamati in causa anche Pino Rauti, ‘padre’ di Ordine Nuovo e il comandante dei carabinieri, Francesco Delfino.
I giudici della Corte d’assise di Brescia assolvono tutti i cinque imputati (Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Francesco Delfino e Pino Rauti) della terza inchiesta con la formula dubitativa dell’articolo 530 comma 2, ‘erede’ della vecchia insufficienza di prove. Viene revocata la misura cautelare nei confronti dell’ex ordinovista Delfo Zorzi che vive in Giappone e ha cambiato nome. La Corte d’Assise d’Appello conferma l’assoluzione di tutti gli imputati. La Cassazione annulla le assoluzioni di Maggi e Tramonte e conferma quelle di Zorzi e Delfino. Il verdetto viene accolto dalle lacrime dei superstiti e dei parenti delle vittime. «E’ una vittoria morale che compensa tanti anni di frustrazioni», dice il pm Di Martino.