La vita lascia sempre tracce dietro di sé. Persone, specie, organismi, molecole: tutto ciò che è organico dissemina indizi. Bisogna solo trovare il modo per individuarli. Ne è convinto un gruppo di astrofisici dell’Università di Cambridge, guidato dal dottor Nikku Madhusudhan, che potrebbe aver trovato il più forte segnale di vita extraterrestre mai osservato. Non nel nostro Sistema Solare, ma su K2-18b, un pianeta distante 124 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Leone, che orbita nella fascia abitabile di una stella nana rossa.
Lo studio, pubblicato ad aprile sulla rivista Astrophysical Journal Letters, ha sfruttato le analisi spettroscopiche del telescopio spaziale James Webb per rivelare segnali compatibili con la presenza di dimetil solfuro (DMS) sull’esopianeta. Una molecola che, sulla Terra, ha un’unica origine nota: la vita. Più precisamente, quella marina di fitoplancton, batteri e alghe.

La ricerca ha acceso l’entusiasmo di media e appassionati, ma non è una conferma definitiva: «Bisogna andarci cauti. Non è una prova di vita, è la prova del fatto che potrebbe esserci una molecola. Il rischio è che si crei troppo entusiasmo per qualcosa che non è ancora una scoperta. Capita spesso che i media parlino di “prove” quando siamo solo di fronte a indizi. Bisogna fare attenzione, perché la comunicazione scientifica rischia di essere travisata», spiega Amedeo Balbi, astrofisico, professore all’Università di Roma Tor Vergata e divulgatore scientifico.
Il paper dei ricercatori di Cambridge, infatti, non certifica la presenza di DMS nell’atmosfera di K2-18b, tantomeno l’esistenza di acqua allo stato liquido. Come precisa Balbi: «L’importanza della scoperta non sta nell’affermare che ci sia vita extraterrestre, ma nel fatto che, se venisse confermata, sarebbe la prima volta che troviamo un composto atmosferico potenzialmente riconducibile ad attività biologica. Al momento c’è un’alta probabilità che quella molecola, il dimetil solfuro, sia effettivamente presente, ma la rilevazione va ancora migliorata».
Cos’è il Dimetil Solfuro?
Quando parliamo di DMS, parliamo di una molecola che può essere considerata una biofirma. Ovvero, una traccia chimica collegabile ad attività biologica. Come, per esempio, l’ossigeno nell’atmosfera terrestre, prodotto dalla fotosintesi. Ma il concetto di biofirma può risultare ambiguo: l’ossigeno può essere generato anche da processi non biologici.
Ciononostante, sul nostro pianeta, il dimetil solfuro è una chiara traccia di vita. «La creazione di DMS parte dallo zolfo, uno dei nutrienti principali per i fitoplancton, quegli organismi microscopici fotosintetici che rappresentano i produttori primari dell’ecosistema marino. Lo zolfo, insieme ad azoto e fosforo, è fondamentale per trasformare la materia inorganica in materia vivente. I fitoplancton utilizzano questi elementi insieme a energia solare e CO₂ per creare materia organica tramite fotosintesi, dando avvio all’intera catena alimentare degli oceani», racconta Davide Seveso, biologo marino dell’Università Bicocca di Milano e vicedirettore del The Marine Research and High Education Center (MaRHE) sull’isola di Magoodhoo nell’Arcipelago delle Maldive.

Il dimetil solfuro viene prodotto per due motivi principali. Il primo, come spiega il biologo, è difensivo: «Serve a rendere il fitoplancton meno appetibile per altri organismi. Una dinamica nota come anti-grazing (anti brucatura, ndr.), ovvero una strategia per sopravvivere all’azione di pascolo degli altri organismi. Il fitoplancton produce queste molecole per difendersi, ma rimane comunque alla base della catena alimentare degli oceani. È la principale fonte di nutrimento dello zooplancton, a sua volta fonte di nutrimento per molte specie marine, come le balene. Il secondo è di tipo osmotico: il suo precursore, il DMSP (dimetilsulfoniopropionato), serve a regolare la pressione salina delle cellule in risposta a variazioni di salinità».
Una parte del DMS resta negli oceani; un’altra, invece, si ossida in gas come l’anidride solforosa (SO₂). Questi composti, oltre a contribuire all’odore caratteristico del mare, hanno un ruolo cruciale anche nel clima: «La presenza di questi gas nell’atmosfera contribuisce alla formazione delle nuvole. Agiscono come nuclei di condensazione del vapore acqueo e quindi contribuiscono al raffreddamento del pianeta e, di conseguenza, alla mitigazione del riscaldamento globale. È un perfetto esempio di come tutto sia connesso: ciò che accade nel microcosmo oceanico ha conseguenze anche nell’atmosfera terrestre».
Sulla scoperta su K2-18b, Seveso invita comunque alla prudenza: «Il DMS è certamente una biofirma, ma non è detto che la sua presenza sia legata alla vita. Potrebbe anche essere prodotto da altri processi. Nell’ambiente marino terrestre conosciamo bene questo ciclo, ma non possiamo dire se valga anche per altri ecosistemi o pianeti».
I pianeti Iceani
Ad aggiungere entusiasmo intorno alla rilevazione del team di astronomi di Cambridge è stato un dato precedente. K2-18b, scoperto nel 2015 dal telescopio spaziale Kepler, è classificato come pianeta sub-nettuniano: una tipologia più massiccia dei pianeti rocciosi come la Terra o Marte, ma più piccola dei giganti gassosi come Nettuno. Nel 2019, il telescopio spaziale Hubble aveva rilevato tracce di vapore acqueo nella sua atmosfera, portando alcuni ricercatori a ipotizzare la presenza di grandi quantità di acqua liquida sulla superficie.
Il lancio del telescopio James Webb, nel dicembre 2021, ha permesso agli astrofisici di osservare in modo più dettagliato il pianeta. In particolare, nel momento in cui il corpo celeste passa davanti alla sua stella, la sua atmosfera si illumina e i gas presenti modificano lo spettro della luce che raggiunge il telescopio. Analizzando queste variazioni con la spettroscopia, si può dedurre la composizione chimica dell’atmosfera. Ed è così che è stato rilevato un segnale molto forte di DMS, compatibile con concentrazioni centinaia di volte superiori a quelle terrestri.

I dati raccolti hanno portato Madhusudhan e colleghi a ipotizzare che i pianeti sub-nettuniani potessero ospitare oceani caldi, avvolti in atmosfere ricche di idrogeno, metano e altri composti del carbonio. Per descriverli, il team ha usato l’espressione “Pianeti Iceani”. Come spiega Balbi, si tratta di «una crasi tra oceano e idrogeno. Sarebbero questi, infatti, gli elementi caratteristici di questa tipologia: mondi massicci ricoperti per larga parte da oceani, che potrebbero mantenere le condizioni di abitabilità anche grazie ad atmosfere molto diverse dalla nostra, con altissime quantità di idrogeno e di altri gas».
Come per l’ossigeno, però, la presenza di dimetil solfuro potrebbe non essere dovuta a materia organica: «Ci sono molte ipotesi alternative. Per esempio, alcuni ricercatori ritengono che ci sia la possibilità che K2-18b sia un pianeta gassoso, quindi non ricoperto da oceani, ma semplicemente pieno di gas. Gli oceani restano una possibilità, ma non una certezza».
La ricerca di vita extraterrestre, naturalmente, proseguirà. Ma la distanza siderale di 124 anni luce rende impossibile, almeno oggi, qualsiasi verifica diretta. Per questo, avverte Balbi, «il metodo resterà quello delle tecniche indirette, come le indagini spettroscopiche. Diverso è il discorso per il Sistema Solare: lì si può raggiungere un grado di certezza maggiore, ma i luoghi candidati sono pochi, come Marte oppure Europa, una delle lune di Giove. E, soprattutto, forme di vita che ci si aspetta sono infinitamente semplici e microscopiche. Mentre in altri sistemi solari potrebbero esistere biosfere più strutturate o, addirittura, forme di vita intelligenti. Resta comunque un fatto: è la prima volta che troviamo un possibile indizio di biofirma su un altro pianeta. E questo non era mai accaduto.»