Per oltre cento giorni ha vissuto con un cuore artificiale in titanio, alimentato da un rotore magnetico capace di ruotare a 3.000 giri al minuto, senza mai fermarsi. È accaduto in Australia, dove un paziente affetto da insufficienza cardiaca terminale, in attesa di trapianto, è stato mantenuto in vita grazie a BiVACOR, un dispositivo sperimentale che sostituisce integralmente il cuore umano e ne simula il flusso pulsatile.
Un traguardo storico per la cardiochirurgia, che segna una svolta tecnologica ma apre anche interrogativi profondi. Che cosa significa vivere con un organo interamente artificiale? In che modo cambia la nostra idea di vita, di sofferenza, di morte, quando tutto questo viene regolato da una macchina? Ne abbiamo parlato con Laura Palazzani, bioeticista, ordinario di Filosofia del diritto all’Università LUMSA di Roma e delegata italiana per la bioetica presso il Consiglio d’Europa, che da anni si occupa delle implicazioni etiche delle tecnologie applicate alla medicina.
Quali soluzioni offre oggi la tecnologia medica per affrontare la carenza di organi e quali dispositivi artificiali stanno già affiancando — o sostituendo — i trapianti tradizionali?
A causa della scarsità di organi – soprattutto nei bambini– molte persone muoiono in attesa di un trapianto. Alcuni dispositivi artificiali permettono oggi una sostituzione provvisoria o permanente degli organi naturali. Il cuore artificiale totale, ad esempio, sostituisce completamente le funzioni del cuore umano. Viene impiantato nei pazienti con insufficienza cardiaca terminale, quando non ci sono disponibili cuori disponibili, fungendo da “ponte” in attesa del trapianto.
Anche la dialisi o il rene bioartificiale impiantabile possono essere tra le soluzioni definitive per chi non è idoneo al trapianto. E poi c’è l’ECMO, un sistema che ossigena il sangue esternamente al corpo ed è usato nei pazienti con insufficienza respiratoria grave. Il sistema MARS, invece, filtra le tossine in caso di insufficienza epatica acuta. Esistono anche il pancreas artificiale, con sensori di glucosio e pompe di insulina automatizzate, e la cornea artificiale, usata quando i trapianti tradizionali non funzionano.
Quali sono le principali questioni etiche che pongono questi dispositivi?
Sono molte. La prima è la proporzionalità: ogni dispositivo va valutato in base al rapporto tra i benefici attesi – prolungamento della vita, miglioramento della qualità – e i rischi, come infezioni, rigetto, complicanze a lungo termine. C’è poi il tema dell’autonomia del paziente. Per poter decidere, la persona deve ricevere informazioni chiare, comprensibili, aggiornate. Non solo sui benefici, ma anche sui disagi legati all’uso di un dispositivo, alla possibile sofferenza e alle alternative disponibili.
Un paziente con cuore artificiale, per esempio, può sopravvivere dipendendo da un dispositivo, con mobilità limitata, continue applicazioni, spesso in condizioni di sofferenza e disagio. È importante distinguere tra i rischi legati a dispositivi già sperimentati e quelli ancora in fase sperimentale, vista l’incertezza associata a questi ultimi.
Non va trascurata nemmeno la questione dell’identità personale: alcuni pazienti possono sentirsi “meno umani” o alterati nella propria identità con dispositivi artificiali impiantati; altri li percepiscono come invasivi dell’integrità del corpo.
E sul piano sociale ed economico?
I dispositivi artificiali avanzati – come cuori o reni bioingegnerizzati e pancreas automatizzati – hanno costi elevati, spesso superiori a quelli dei trapianti, a causa di produzione, manutenzione, personale specializzato e tecnologie di supporto. Non tutti possono permetterseli, soprattutto nei Paesi a basso o medio reddito. Ma anche nei sistemi sanitari avanzati, non universali o pubblici, non tutte le strutture offrono gli stessi trattamenti: pazienti in regioni svantaggiate o rurali potrebbero non avere accesso a dispositivi innovativi o centri specialistici. L’equità si realizza solo garantendo cure indipendentemente dalla condizione economica, sociale o culturale.
C’è poi il problema della giustizia distributiva: quando i dispositivi sono pochi e i pazienti molti, scegliere a chi destinarli diventa eticamente complesso. L’etica libertaria favorisce i più ricchi o con meriti sociali. La visione utilitarista privilegia chi ha maggiori probabilità di recupero. La bioetica personalista pone al centro la dignità umana e applica solo criteri clinici, dando priorità a chi ha più urgenza e bisogno, in base a diagnosi e prognosi.
Se la tecnologia apre nuove possibilità, rischia anche di ampliare le disuguaglianze se non accompagnata da riflessione etica e politiche pubbliche responsabili. La vera innovazione non è solo tecnica, ma anche socialmente sostenibile.
L’impatto di queste tecnologie va oltre l’aspetto clinico. Come cambia anche la nostra visione della vita e della morte?
L’introduzione di cuori artificiali, reni bioingegnerizzati, sistemi ECMO o pancreas automatici ha reso possibile prolungare la vita in situazioni che, fino a pochi decenni fa, erano considerate incurabili. Questo ha trasformato la morte da evento naturale e ineluttabile a qualcosa di gestibile tecnologicamente, spesso posticipabile.
La morte viene spesso vista come un fallimento medico, anziché come una fase naturale dell’esistenza. La tecnologia non apre solo speranze, ma a volte crea illusioni di immortalità. I confini tra vita e morte diventano sfumati, e la vita diventa, a volte, l’unico obiettivo, anche se prolungata a ogni costo.