
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina a colpi di dazi ha subito un’ulteriore escalation. Il “Dragone” asiatico ha deciso infatti di bloccare il commercio di minerali e magneti, materiali indispensabili per settori strategici come quello automobilistico, aereospaziale e dei semiconduttori. Il 4 aprile, due giorni dopo il Liberation day, Pechino ha ordinato la restrizione sull’esportazione di sei metalli pesanti che fanno parte delle cosiddette “terre rare”. D’ora in avanti le spedizioni all’estero potranno avvenire solo attraverso licenze speciali, per le quali Pechino sta iniziando a costruire un apposito sistema di rilascio.
Terre non proprio “rare”
Come definito dalla IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) le terre rare sono un gruppo di 17 elementi chimici dalle utilissime proprietà tecnologiche e industriali. Presenti in smartphone e macchine elettriche, computer e turbine eoliche, sono considerati elementi strategici perché ingredienti vitali nei condensatori, nei componenti elettrici dei chip che alimentano i server di IA e negli smartphone. Vengono impiegati anche nei prodotti chimici per i motori a reazione, laser, fari per auto e alcune candele. Nonostante il nome possa far pensare ad elementi difficili da reperire, le terre rare sono in realtà piuttosto presenti in natura. Il nome quindi non è legato al fatto che ce ne sono poche in senso assoluto, quanto al fatto che è difficile trovarle in alte concentrazioni all’interno di un giacimento. Rendendo quindi il processo estrattivo costoso e complesso.

Il dominio di Pechino
La Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale (con una produzione stimata di 270.000 tonnellate di su un totale mondiale di 390.000). Il più grande giacimento del mondo è infatti quello cinese di Bayan Obo. Si tratta di un giacimento a cielo aperto costituito da tre corpi minerari principali. Si estende in lunghezza per 18 chilometri nella provincia della Mongolia interna.
Gli Stati Uniti, secondi produttori, estraggono 45.000 tonnellate, seguiti da Australia e Birmania. La vera fonte del potere cinese sta non solo nell’estrazione ma anche nella fase di lavorazione e raffinazione. Pechino controlla quasi il 90% della capacità globale. Questo dominio è praticamente totale (99.9%) per le terre rare pesanti, come disprosio e terbio. Anche i minerali estratti altrove vengono spesso spediti in Cina per la raffinazione finale.
Le ragioni del monopolio
Oltre ad avere circa il 37% delle riserve globali, la Cina ha costruito le fabbriche di produzione e raffinazione nei pressi delle miniere per facilitarne il trasporto. Una mossa che ha permesso, insieme ai bassissimi costi della manodopera, di ridurre i costi globali della produzione di terre rare. Gli altri Paesi, e in primis gli Stati Uniti, non sono riusciti a seguirli, rimanendo così fuori dalla competizione.
Inoltre negli ultimi quindici anni Pechino ha voluto espandere la produzione all’estero. Acquisendo i diritti esclusivi di estrazione in Africa in cambio di grandi promesse per lo sviluppo e la costruzione di infrastrutture. Sono stati siglati dei grossi accordi nella Repubblica Democratica del Congo e in Kenya, dove la Cina si è impegnata a fornire quasi 700 milioni di dollari per la costruzione di un datacenter e di un’autostrada.