In un mondo che si basa sempre di più su views, clic, condivisioni e share, diventano fondamentali i numeri. Negli ultimi anni si sta affermando sempre di più il modello data driven, cioè la costruzione di strumenti, di abilità e di una cultura che agisce basandosi sui dati.
Il mondo della musica, in coda a tutti gli altri settori, si è adeguato a questo nuovo modello intuendone la potenzialità. Attraverso un dataset pertinente, pulito e ben strutturato, è possibile infatti ottenere una visione completa e soprattutto oggettiva della situazione.
Le statistiche non sono infatti impressionabili dalle “variabili sensoriali” che circondano una situazione. In questo modo diventano importanti le tendenze che possono rendere un artista o un brano la hit del momento. Ecco perché è essenziale capire come funziona il mondo del data driven nella musica.
Il data-driven e l’industria musicale: profitti vs creatività
In un video pubblicato nel giugno di due anni fa, Rick Beato, un famoso musicologo statunitense, analizzava le 20 hit del 2018 e le comparava con quelle del 1998. Il risultato? 17 delle canzoni di successo del 2018 presentavano un pattern ritmico simile, quando non identico, della drum machine. Una regolarità che vent’anni prima si limitava al fatto che i successi fossero di stampo hip hop, in linea con la forte espansione del movimento a fine anni ’90, o pop.
Qualcosa di rilevante si è capovolto rispetto a quando, per un editore, pubblicare un singolo o un album equivaleva a una scommessa da vincere: fare di quel brano o di quel disco un record di vendite. Certo, è impensabile paragonare l’industria musicale di oggi allo spirito imprenditoriale degli editori degli anni ’60. Quei «vecchi signori mastica-sigari che guardavano al prodotto e dicevano: “Non lo so. Chi può sapere quello che è? Registralo, mettilo in vetrina. Se vende, funziona!”» come li definiva Frank Zappa in una celebre intervista del 1987.
Tuttavia, è un fatto innegabile che lo scenario mainstream si sia drasticamente appiattito negli ultimi 10-15 anni. E il motivo sta in buona parte nell’adozione, anche da parte dell’industria musicale, dei modelli di marketing offerti dall’analisi dei big data.
Statistiche sul pentagramma
La tendenza, ormai consolidata, è di applicare la strategia data-driven anche in un’industria, quella musicale, da sempre ad alto tasso di imprevedibilità. Lo scopo è altrettanto chiaro: individuare papabili trend e, quindi, hit da milioni di ascolti. E soprattutto farlo prima che il fenomeno scoppi a livello globale, in modo da anticipare la tendenza.
Per realizzare l’obiettivo, le piattaforme di streaming – da Spotify ad Apple Music – offrono, da almeno un paio d’anni, la possibilità ad editori e artisti, di accedere alle statistiche degli ascolti giornalieri e non solo. Così facendo, i musicisti e il loro management riescono ad orientarsi meglio nel mercato e a produrre, di conseguenza, canzoni che si possano inserire al meglio nel filone che sta per emergere.
Dall’altro lato, anche i servizi streaming vogliono sapere quali artisti hanno maggiore potenzialità di profitto, per poter piazzare meglio i prodotti “vincenti” ed aiutare gli editori a commercializzarli nel modo migliore. In altre parole, si tratta di integrare i sistemi di marketing con quelli di vendita… nel campo della musica.
Che ne sarà del talento?
Apparentemente, l’industria delle canzoni sembra dunque essersi trasformata in un perfetto meccanismo escludente nei confronti delle voci fuori dal coro, degli innovatori.
E in effetti, per molti aspetti le cose vanno in questo modo. Le tre maggiori etichette discografiche possiedono da sole circa l’80% del mercato. Le stesse «rappresentano meno dell’1% di tutta la nuova musica che esce ogni anno», sostiene il produttore discografico Ankit Desai, fondatore dell’etichetta Snafu Records e in precedenza alla Capitol Records e alla Universal Music Group, dove si occupava di streaming strategy.
Gli antidoti all’omologazione che minaccerebbe di lasciare artisti dotati nell’ombra, però, ci sono e sono due. Il primo esiste, ed è proprio lo sfruttamento dei dati e degli algoritmi per scovare esecutori con un piccolo seguito ma un grande potenziale – modello adottato dalla Snafu Records e da altre case discografiche. Il secondo resiste, e si tratta invece delle nicchie, una definizione poco apprezzata dagli addetti ai lavori. Il lato positivo è che etichette e artisti, soprattutto jazz, di world music, di elettronica e di musica sperimentale, possono ancora contare su uno zoccolo duro, seppur limitato, di ascoltatori appassionati.
https://www.facebook.com/realworldrecords/videos/2475061592743272/
Spesso, in questi contesti, a creare case discografiche sono proprio gli artisti stessi, desiderosi di aiutare i colleghi emergenti e di promuovere album di valore. Qualche esempio? Si pensi alla Real World Records di Peter Gabriel, o, in Italia, al progetto del trombettista italiano Paolo Fresu, che ha fondato la sua Tuk Music. Senza scomodare i campioni dell’innovazione come la celebre ECM di Manfred Eicher, a Monaco di Baviera.
Insomma, la grande sfida per l’industria musicale è e resterà quella di garantire i profitti propri e degli artisti, senza dover sacrificare troppo la qualità del prodotto. E valorizzando, anzi, le capacità dei talenti. Perché, a prescindere dai generi e dagli stili, come ricorda il grande Buddy Rich, «ci sono solo due tipi di musica: quella buona e quella scadente».