Iraniani alle urne per votare i 290 membri del Parlamento e gli 88 dell’Assemblea degli Esperti, il collegio che nomina la guida suprema. Venerdì 1° marzo oltre 61 milioni di persone nel Paese mediorientale saranno chiamate a esercitare il proprio diritto democratico di scelta dei propri rappresentanti. Democratico si fa per dire. Perché nelle ultime settimane il governo a guida teocratica ha vanificato quasi del tutto le candidature degli oppositori. Solo un centinaio di candidati sui circa 14 mila proposti non appoggiano il regime (in media 52 per ogni seggio).
Sondaggi da percentuali bulgare
Il 77 per cento degli iraniani non si recherà alle urne. È quanto emerge da un sondaggio condotto da un’inchiesta dall’istituto nederlandese Gamaan su un campione di 58.015 cittadini residenti in Iran, tra il 31 gennaio e il 7 febbraio. Il sondaggio fotografa la profonda sfiducia della popolazione del Paese mediorientale nei confronti della leadership. Un malcontento che pare acuito rispetto all’estate scorsa, quando la percentuale di coloro che non avrebbero votato si attestava attorno al 69 per cento.
Ha dell’incredibile anche la quota degli iraniani non al corrente dell’appuntamento elettorale del 1° marzo: ben il 37,7 per cento degli aventi diritto, una cifra che traduce lo scetticismo generale verso l’efficacia dell’esercizio democratico. Oltre a ciò, il 39 per cento della popolazione che ha votato alle scorse elezioni parlamentari del 2020 non intende recarsi alle urne quest’anno. In quell’occasione la partecipazione registrata è stata di poco superiore al 42 per cento, record assoluto dal 1979.
Le prime elezioni dopo la morte di Mahsa
La bassa affluenza alle urne si deve a un insieme di fattori di politica interna ed estera. Negli ultimi due anni in Iran migliaia di persone hanno protestato contro le misure di repressione ordinate dal regime ai danni delle donne. Tutto ha preso inizio con la vicenda di Mahsa Amini, la ventiduenne di origini curde deceduta il 16 settembre 2022, mentre si trovava sotto la custodia della polizia morale per “non aver indossato correttamente il velo”. Il caso ha fatto piombare il Paese nel caos. Centinaia di manifestanti hanno ricevuto condanne a pene capitali, oltre 18 mila gli arresti.
L’insofferenza popolare si lega anche a cause di natura economica. L’Iran vive un’inflazione galoppante pari a circa il 50 per cento e il valore del rial è in graduale discesa. Non va meglio sul versante dell’occupazione giovanile, attestata attorno al 15 per cento. E nemmeno su quello del Pil pro capite, inferiore di 28 punti percentuali rispetto all’anno scorso.
Preoccupa gli iraniani anche la posizione del regime nel contesto della guerra israelo-palestinese. Il supporto militare a Hezbollah e agli Houthi yemeniti rischia di coinvolgere il Paese in guerra regionale, che assesterebbe un duro colpo alle casse statali.
Astensionismo come risposta
«Se votare potesse fare del bene al popolo iraniano, sarebbe vietato». Con questa frase paradossale, la madre di Mahsa Amini, Mojgan Eftekhari, interpreta le intenzioni di tre quarti degli iraniani. Una votazione che ha ben poco di democratico, in cui il cittadino è costretto a scegliere tra un fondamentalista di vecchia data e una new entry.
Pochissime le alternative riformiste: circa 100 moderati compaiono nella lista degli eleggibili, proposti dall’ex presidente Mohammad Khatami. Una parte cospicua del fronte d’opposizione, però, ha invitato i sostenitori a disertare le urne. Di questo parere sono l’attivista moderato Mostafa Tajzadeh e la vincitrice del Premio Nobel per la pace Narges Mohammadi, che ha dichiarato: «Sanzionare le elezioni sotto un regime religioso dispotico non è solo una mossa politica, ma anche un obbligo morale per gli iraniani amanti della libertà e in cerca di giustizia».