Floyd, prima udienza: Chauvin ha tradito il distintivo

Processo morte Floyd: Crump fuori dal tribunale

Inginocchiati per 8 minuti e 46 secondi davanti al tribunale di Minneapolis. Lo stesso tempo che George Floyd, 46 anni, ha impiegato per morire soffocato dal ginocchio di un ufficiale di polizia lo scorso 26 maggio. Con questo gesto simbolico i famigliari della vittima hanno segnato l’inizio della prima udienza del processo a Derek Chauvin.

Il video mostrato in aula

La prima udienza, tenuta il 29 marzo in una Minneapolis in piena allerta per il rischio di disordini, è iniziata con le immagini dell’arresto del 26 maggio 2020, riproposte dal procuratore Jerry Blackwell, che nel processo rappresenta la pubblica accusa. «Vi devo avvisare che questo video è forte» ha detto Blackwell rivolgendosi ai giurati, alcuni dei quali si erano sempre rifiutati di vedere il video integralmente. Ma l’accusa ha sottolineato l’importanza di mostrarlo al fine di comprendere i fatti senza alcuna «interpretazione da avvocati». I video, girati dai passanti, immortalano i minuti fatali in cui Floyd supplica Chauvin di mollare la presa, lamentando a fatica «I can’t breathe», non riesco a respirare, parole divenute poi simbolo delle proteste di Black Lives Matter.

Il Procuratore Jerry Blackwell rappresenta la pubblica accusa nel processo

«L’agente è ricorso a un uso eccessivo e irragionevole della forza contro un uomo che non costituiva alcuna minaccia. Per questo non può essere considerato innocente.»
Il procuratore ha voluto sottolineare che l’ex ufficiale di polizia non si è alzato dal corpo di Floyd neanche quando i colleghi non sentivano più il battito. Di qui la conclusione dell’accusa: «Chauvin ha tradito il suo distintivo, il suo giuramento di proteggere i cittadini e di usare compassione nell’esercizio delle sue funzioni».

La risposta della difesa

Mentre i filmati passano sullo schermo Derek Chauvin siede al suo posto in aula. Accanto a lui, separato dal plexiglass, il suo avvocato difensore Eric Nelson risponde alle crude immagini spostando l’attenzione sulla vittima. Secondo il legale, al momento dell’arresto George Floyd si trovava in uno stato di alterazione causato dall’assunzione di stupefacenti che, insieme a problemi cardiaci e all’adrenalina del momento, ne avrebbe causato la morte.

Derek Chauvin e il suo avvocato difensore Eric Nelson

Fu sempre per via della sua scarsa lucidità che Floyd rifiutò più volte di restituire il pacchetto di sigarette acquistato con una banconota da 20 dollari falsa. Questa la linea con cui , verosimilmente, la difesa tenterà di scagionare l’assistito. Chauvin rischia fino a 40 anni di detenzione per omicidio non intenzionale di secondo grado.

«Nessuno chiamerebbe questo un caso difficile se la vittima fosse stata bianca» ha affermato Benjamin Crump, principale rappresentante dei Floyd. L’avvocato afroamericano, celebre per le sue vittorie legali nel campo dei diritti civili, lo scorso 12 marzo ha patteggiato con la città di Minneapolis un risarcimento record da 27 milioni di dollari in favore della famiglia della vittima.
Un accordo che è stato interpretato come un’ammissione di colpa, e che rischia di compromettere il distacco emotivo della giuria inclinando il piano in sfavore dell’imputato.

Benjamin Crump, legale della famiglia Floyd, inginocchiato prima del processo. A fianco a lui il reverendo Al Sharpton e un famigliare della vittima.
Il verdetto sull’America

Il processo potrebbe durare dalle due alle quattro settimane. Nei prossimi giorni sono attesi diversi agenti della polizia di Minneapolis chiamati a testimoniare dalla pubblica accusa. Tra questi anche il capo del Dipartimento Medaria Arradondo, che licenziò Chauvin immediatamente dopo l’accaduto. A sostegno dell’accusa si presenteranno inoltre medici professionisti, pronti a confermare la tesi di morte per asfissia, e alcuni dei testimoni oculari che hanno ripreso la scena.

Il Presidente Biden segue «con attenzione» gli aggiornamenti che arrivano da Minneapolis, e tutta l’America (e con essa il mondo) assiste al processo col fiato sospeso, in attesa di trarre conclusioni dal verdetto finale.
Si tratta a tutti gli effetti di un checkpoint per il Paese, un «referendum sulla giustizia americana» come lo hanno definito i legali della famiglia Floyd. Possono gli afroamericani fidarsi della giustizia penale del loro Paese, pretendendo che anche le forze dell’ordine rispondano delle loro azioni davanti alla legge? Il razzismo si può curare con riforme e segnali forti dall’alto, o resta un’insanabile piaga interna alle istituzioni?

Un onere, quello di rimanere equidistanti tra il malcontento popolare e l’imparzialità della legge, che grava sulla giuria popolare e sul Gran Jury Peter Cahill.

Nicola Bracci

Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione. Ora al quotidiano Domani.

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