Fine lavoro mai: con le nuove manovre si va in pensione sempre più tardi

«Non vedo l’ora di entrare in pensione, per riposarmi e dedicarmi ai nipoti». È una frase che si sente dire spesso ai lavoratori ormai prossimi alla vecchiaia. Un desiderio semplice, che oggi rischia di diventare un’utopia. Con la nuova legge di Bilancio si sposta ancora in avanti l’asticella dell’età pensionabile, finora fissata a 67 anni. Si aggiungerà un mese dal 2027 e tre mesi dal 2028. E con ogni probabilità non ci si fermerà qui: il numero di mesi crescerà fino a quando continuerà ad aumentare l’aspettativa di vita in Italia.

Come si stabilisce l’età pensionabile

Il Governo lega la fine della carriera alla speranza di vita di una persona – secondo il report ISTAT del 2024, in media nel Bel Paese si vive fino a 83 anni. Il problema è che si pensa che, in parallelo, aumentino anche gli anni di aspettativa di vita in buona salute. Eppure non è così. Secondo le stime dell’Istituto Nazionale di Statistica il dato è molto più basso: 58 anni. Quindi, molte persone vivono per anni con problemi di salute significativi, che si aggravano con il passare del tempo. Perché il corpo non è una macchina che si aggiorna ogni anno. Con l’avanzare dell’età, oltre a eventuali patologie croniche, risente dello sforzo fisico e mentale accumulato nel corso di un’esistenza passata a lavorare.

Il minimale contributivo

In teoria si può andare in pensione prima, basta aver maturato i contributi necessari per farlo: 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Se solo fosse così semplice. Secondo le simulazioni fatte dall’Osservatorio di previdenza della Cgil, basate sul minimale contributivo – il livello minimo di contributi necessario per convalidare un anno di lavoro ai fini pensionistici – nel 2025 il limite di retribuzione è del 40%, pari a 603,40 euro mensili. Ciò significa che la retribuzione settimanale lorda deve essere di 241,36 euro: almeno 5 euro all’ora.

La legge ragiona come se tutti avessero carriere uguali. Invece, per chi ha salari bassi, impieghi discontinui, part-time o rapporti brevi, il rischio è davvero alto. Perché pur lavorando per un anno intero, la contribuzione potrebbe non essere sufficiente. È il caso di 5,1 milioni di dipendenti privati, quasi un lavoratore su tre a cui non viene rinnovato il contratto da tempo. Infatti, la Cgil evidenzia come il minimale contributivo sia cresciuto del 16,5% dal 2022, mentre i salari sono rimasti invariati. Nonostante sia aumentata l’inflazione. Questo vuol dire che un lavoratore che tre anni fa era appena sopra la soglia limite, oggi può aver accumulato circa cinque mesi e mezzo di pensione non maturata, pur avendo lavorato ogni singolo giorno.

L’età pensionabile, ora fissa a 67 anni, slitterà di un mese nel 2027 e di tre nel 2028
La legge grava sulle donne

A subire gli effetti di questa decisione sono soprattutto le donne, che hanno una probabilità più alta di interrompere o mettere in pausa la propria carriera per occuparsi dei figli o per prendersi cura di familiari anziani o con disabilità. Da un lato, il ragionamento è corretto: chi non lavora non versa contributi, quindi non può andare in pensione prima di raggiungere i 67 anni. Ma, dall’altro lato, è altrettanto vero che, nella maggior parte dei casi, non si tratta di una scelta libera, bensì di una conseguenza delle circostanze e della mancanza di servizi adeguati.

In questi casi lo Stato potrebbe intervenire riconoscendo quel lavoro di cura, ad esempio attraverso il versamento di contributi figurativi che simulino una continuità lavorativa. Anche perché si tratta di fatto dello stesso ruolo svolto da una badante: un impiego retribuito e tutelato. I contributi figurativi vengono già riconosciuti durante la maternità obbligatoria. Lo stesso principio potrebbe essere esteso anche agli anni di assistenza familiare.

I giovani subiscono il peso del sistema

Un ragazzo di 25 anni che, dopo aver conseguito una o persino due lauree, entra ora nel mondo del lavoro ha davanti a sé almeno 47 anni di contributi da maturare. Anni che, stando all’attuale meccanismo di calcolo dell’età pensionabile, potrebbero diventare 50 entro il momento del ritiro. Ma non tutti aspettano di avere un titolo per iniziare a lavorare. Molti ci provano sin da subito, durante l’estate o in parallelo agli studi. Ciò che trovano, però, sono spesso impieghi precari: lavoro nero, compensi miseri, contratti fittizi in cui non vengono dichiarate le effettive ore di lavoro svolte. In altri casi, invece, il lavoro non si trova affatto, perché il requisito richiesto è sempre lo stesso: l’esperienza. Ma se tutti seguono questo ragionamento, per un ragazzo è difficile maturarla.

Sono tutti elementi che il Governo sceglie di non prende in considerazione. L’età pensionabile non viene posticipata perché le persone stanno “meglio”, ma perché il sistema deve reggere economicamente. Infatti, ritardare il pensionamento significa incassare più contributi e, di conseguenza, pagare meno assegni. Così facendo si ignora la salute psico-fisica delle persone, riducendole a numeri statistici e dimenticando che sono invece esseri umani che invecchiano.

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