«Ascolto le persone, ma non lascio che mi comprino» dichiara Mike Bloomberg in riferimento alla natura privata della sua campagna elettorale, costosissima.
Il tre volte sindaco di New York non fa marcia indietro rispetto a quando, a novembre, nel presentare la propria candidatura alle Primarie Democratiche 2020, prometteva di rifiutare donazioni e l’eventuale stipendio presidenziale.
Già allora, le reazioni dei concorrenti democratici, non certo positive, erano state immediate. Bernie Sanders si era difatti detto disgustato dall’idea che Bloomberg o qualunque altro miliardario potesse aggirare il regolamento politico del Partito.
Questo perché secondo lo statuto del Democratic National Committee, ogni candidato deve rispettare stringenti condizioni in campagna elettorale, fra cui le singole donazioni dal basso.
Donazioni necessarie per partecipare ai dibattiti
Un numero minimo di donatori individuali dai vari stati e una soglia di sbarramento delle preferenze in sondaggi ufficiali. Sono queste le condizioni di partito, sempre più rigide man mano che la data delle primarie si avvicina, in mancanza delle quali non si può partecipare ai dibattiti televisivi fra i candidati.
Secondo i più recenti aggiornamenti infatti, per partecipare al confronto in programma in Iowa la prossima settimana, ogni candidato è tenuto a raggiungere un numero non inferiore a 225.000 donatori e un minimo di preferenze nei sondaggi nazionali del 5%.
Si arriva dunque al motivo dell’accusa di Sanders a Bloomberg: questi, autofinanziandosi, è sistematicamente escluso da ogni confronto pubblico e quindi non può mostrare al meglio il suo programma agli elettori.
«Se non puoi costruirti un supporto dal basso per la tua candidatura, non hai diritto di correre come presidente», continua infatti Sanders. Lo stesso che, stando alle proprie pubblicazioni, nell’ultimo trimestre ha ricevuto proprio dai suoi quasi due milioni di donatori la quota record di 34,5 mln di dollari, seguito a distanza da Pete Buttigieg – con 24,7 milioni di dollari incassati-.
Bloomberg continua ad autofinanziarsi
Tuttavia, nessuno degli altri candidati ha le disponibilità economiche di Mike Bloomberg, il nono uomo più ricco del mondo nel 2019 secondo Forbes.
Nel rifiutare categoricamente ogni forma di supporto alla propria campagna, l’ex primo cittadino di New York afferma la propria volontà di continuare la massiccia operazione di autofinanziamento intrapresa negli scorsi mesi. Una spesa che continua a segnare record su record: sono circa 170 milioni i dollari spesi finora in pubblicità televisive e sui social, stando al NYT.
L’obiettivo è quello di tenere testa alla gigantesca disponibilità economica di Donald Trump, che solo per il 2020 può contare su un budget che sfiora i 103 milioni. Non a caso, al momento di scendere in campo Bloomberg aveva dichiarato di voler spendere qualcosa come 100 milioni di dollari in pubblicità anti-Trump.
Un duello economico che si fa sempre più serrato man mano che il tempo per le elezioni stringe. L’ultimo episodio si è giocato qualche giorno fa sull’acquisto di spazi pubblicitari del seguitissimo Super Bowl del prossimo 3 febbraio. A uno spot di 30 secondi comprato dal presidente in carica, Bloomberg ha risposto con una pubblicità lunga un minuto e costata 10 milioni di dollari. Tempo qualche ora e Trump rispondeva pareggiando i conti ed acquistando un eguale spazio di un minuto.
We cannot afford four more years of President Trump’s reckless and unethical actions.
The stakes could not be higher.
We must win this election.
And we must begin rebuilding America. https://t.co/W6P9uaCyqN
— Mike Bloomberg (@MikeBloomberg) November 24, 2019
La strategia anti-Trump: la fondazione dell’agenzia Hawkfish
Nonostante tutto, il consenso di Trump resta comunque ben superiore e radicato. Una larga parte di questo consenso proviene dall’impeccabile operazione di analisi dati e conseguente piazzamento di post e pubblicità all’interno dei social da parte del Republican National Committee, organo interno al partito che ne gestisce la sponsorizzazione.
Per arginare un simile strapotere, Bloomberg ha di recente deciso l’acquisizione di un’agenzia digitale e provider di servizi tecnologici chiamata Hawkfish e guidata da ex dirigenti dell’area marketing di Facebook e da altri personaggi di spicco nel settore della comunicazione. Il potenziale della compagnia è stato sperimentato a novembre, quando ha fornito il proprio aiuto ai candidati democratici nelle elezioni in Virginia e Kentucky, usciti entrambi vincitori.
Ciò nonostante, il fatto che Hawkfish sia totalmente di proprietà di Bloomberg sta costituendo un ulteriore motivo di spaccatura fra il tycoon e il suo partito di riferimento. Spaccatura alimentata da un caso scoppiato proprio fra l’agenzia e l’organizzazione del Partito Democratico, il Democratic National Committee.
A differenza di quanto diffuso negli annunci sulla piattaforma LinkedIn ai papabili assunti, nei quali si diceva che la compagnia sarebbe stata la piattaforma di riferimento per il DNC, le cose sembrano non stare così. L’organo interno al partito ha infatti smentito ogni forma di contratto legale con Hawkfish.
Assenza di legame confermata anche dallo stesso profilo LinkedIn dell’azienda, che ora recita “abbiamo già lavorato per conto di candidati democratici nelle elezioni statali della Virginia e del Kentucky”, ma soprattutto “Mike Bloomberg for President 2020 è il nostro maggior cliente”. A conferma, una volta in più, della mancanza di unità fra l’ex sindaco della Grande Mela e il suo partito.