Mentre negli Stati Uniti imperversa il caso Epstein tra dubbi e accuse, il presidente Donald Trump schiera parte dell’esercito davanti al Venezuela e grida al narco-Stato. Quando i Dem tentano di uscire dal letargo incassando diverse vittorie in Virginia, New Jersey, California e Mamdani a New York, The Donald intenta una causa miliardaria contro l’inglese BBC. E mentre in patria si registra lo shutdown più lungo della storia, il presidente firma un accordo di scambio da 20 miliardi di dollari con l’Argentina di Milei.

Dall’America First all’interventismo
Aprire nuovi fronti all’estero ogni volta che si ha difficoltà in politica interna è una tattica consolidata per il tycoon. Ma dov’è finito l’America First? Trump fa sì che il flusso di news globale sia costantemente invaso dalle sue parole, azioni, minacce, promesse di un interventismo continuo che intasano i mass media e mettono in luce ciò che lui vuole. Eppure durante la campagna elettorale Trump prometteva in politica estera un misto di protezionismo e cinismo non interventista. Con i dazi e l’uscita dalle alleanze globali prometteva un ritorno dell’America, e solo l’America, al centro.
Il colonialismo dell’era Trump
Già nei primi mesi di presidenza il tycoon ha avanzato pretese su Groenlandia, Canada e il “Golfo d’America”. Poi è arrivato l’interventismo e le “otto guerre fermate”. L’ex deputato repubblicano Matt Gaets parla di un “colonialismo dell’era Trump”. «Quando sei il presidente, devi sorvegliare il mondo perché in ogni caso ci sarai trascinato dentro», spiega The Donald. «Gli Stati Uniti non saranno più il poliziotto del mondo», aveva promesso Mr Trump in campagna elettorale. I fronti americani aperti nel mondo sono sempre di più e tra i MAGA, i fedelissimi del presidente, iniziano ad apparire le prime crepe. I sondaggi riportati dal New York Times segnano un calo di credibilità nella leadership trumpiana. Il 33% degli adulti americani approva l’operato del presidente. A inizio anno era il 43%. Gli stessi repubblicani sono diminuiti dall’81% al 68%.

In equilibrio precario
Trump nega la frattura all’interno della sua base: «Ricordatevi che ho fondato io i MAGA. Nessuno più di me sa cosa vogliono». La verità è che il presidente sta cercando di rimanere in equilibrio tra un’America isolazionista e protezionista, quella dell’America First, quella che lo ha riportato alla Casa Bianca e un’America che gioca alla potenza globale, clientelare, che provoca, crea tensioni, suggerisce compromessi e poi dichiara vittoria in ogni caso, mettendo lui, The Donald, al centro. Forse la seconda piace di più al tycoon, soddisfa meglio il suo narcisismo e il bisogno di approvazione mondiale. Ma non può dimenticare che la sua politica estera poggia sull’approvazione interna, e in vista delle elezioni di metà mandato Trump non può permettersi di perdere sostenitori in Senato e al Congresso.
Forse il presidente dovrebbe ridimensionare il peso della sua brinkmanship e sporgersi un po’ meno verso il precipizio: essere sulla vetta del mondo è un gioco da equilibristi, caro Donald.