Dalle prime luci dell’alba è iniziato lo smantellamento della baraccopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, ordinato dal ministero dell’Interno. Sono stati impiegati circa 600 uomini tra forze dell’ordine, vigili del fuoco, protezione civile, operatori della Caritas e servizi sanitari. A questi si aggiungono due elicotteri, diverse camionette, ambulanze e ruspe. Presenti anche 18 pullman per trasferire i migranti in strutture di accoglienza.
Erano 3000 le persone che vivevano nell’area. Di questi, secondo la Questura, erano presenti solo 600 persone, ma secondo le stime dell’Usb non erano più di 300. In migliaia infatti, nei giorni scorsi e durante la notte, hanno lasciato la tendopoli disperdendosi tra le campagne della Piana di Gioia Tauro.
In 200 hanno però scelto di sistemarsi nella nuova tendopoli, a circa centro metri dal ghetto. Questo perché molti sono anche braccianti e le strutture sono lontane dai campi in cui lavorano o dal commissariato di Gioia Tauro dove è possibile rinnovare i documenti. In molti casi, inoltre, i lavoratori attendono il pagamento di giornate, se non settimane o mesi di lavoro.
Durante la mattinata sono stati smantellati, oltre le baracche, quasi tutti i piccoli spacci di cibo e la moschea. «In molti non si sono fatti trovare e si sono spostati nei dintorni, altri hanno deciso di partire per altre zone», afferma Giuseppe Marra dell’Usb. «Chi è rimasto, per lo più non ha intenzione di accettare di entrare nelle tende che la Prefettura ha messo in piedi dall’altra parte della strada o di andare nei Cas. Anzi, molti che erano stati trasferiti nelle scorse settimane sono già tornati. Si organizzeranno autonomamente, con il risultato di creare mille nuovi micro insediamenti».
«Uno straordinario passo indietro, che riporta a otto anni fa, dopo la rivolta di Rosarno – dice Patrik Konde della segreteria nazionale Usb -. Anche allora sono state costruite delle tende, che negli anni sono diventate un ghetto. L’unica soluzione è garantire contratti regolari e integrazione abitativa a questi braccianti. Questa non è una questione di migrazione, ma di diritti del lavoro».