« Sei così bella », disse Alice. «Ho paura di guardarti e non sapere chi sei »
« Penso che anche se un giorno non saprai chi sono, saprai comunque che ti amo »
« E se ti vedessi e non sapessi che sei mia figlia, e non sapessi che mi ami? »
« Allora, ti dirò che lo faccio, e mi crederai »
Una madre che non solo ha paura di non riconoscere più il volto di sua figlia, ma di dimenticare il legame viscerale e indissolubile che la lega a lei. Il disperato timore della protagonista di Still Alice (film del 2014, con Demi Moore nei panni di una docente universitaria che scopre di essere affetta da una malattia degenerativa) è probabilmente lo stesso di migliaia di persone affette da quella che è probabilmente la malattia più spietata del nostro secolo: l’Alzheimer. Con circa 500 mila persone colpite solo in Italia, la malattia neurodegenerativa rappresenta oggi un’emergenza sanitaria destinata ad aggravarsi: il numero di malati raggiungerà i 78 milioni nel 2030 e i 139 milioni nel 2050, lo riporta ADI (Alzheimer’s Disease International).
IL GENE GRIN2C
Una malattia senza cura ma affiancata da una ricerca scientifica che in Italia si dimostra quanto più sinergica e rilevante. È frutto della collaborazione di gruppi di ricerca italiani, coordinatoa dall’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino, la scoperta di un nuovo gene responsabile della malattia. Si chiama
GRIN2C e, spiegano gli scienziati impegnati da anni nello studio dell’interazione tra i fattori genetici e quelli ambientali come radice della malattia, le sue mutazioni sarebbero state le cause dell’insorgere dell’Alzheimer nella famiglia usata come oggetto della ricerca. Un’altra conquista resa possibile grazie all’utilizzo di tecniche avanzatissime di genetica molecolare e alla collaborazione con la prof.ssa Elisa Giorgio del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Pavia e con il prof. Alfredo Brusco del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino.
« Ci aspettiamo che GRIN2C sia una causa molto rara di malattia di Alzheimer – ha spiegato la Dtt.ssa Rubino – Tuttavia, l’aspetto più significativo della ricerca è la conferma del ruolo che i meccanismi di eccitotossicità correlata al glutammato possono avere nello sviluppo della malattia ». Sarebbe infatti l’interazione del glutammato con il recettore NMDA sui neuroni ad aprire un canale responsabile dell’ingresso di ioni calcio. « Se questa stimolazione è eccessiva – spiega Rubini – si provoca un’intensa eccitazione del neurone che porta alla morte cellulare », e quindi al progressivo deficit cognitivo. Prima che quest’ultimo si sviluppi, però, è interessante vedere come i pazienti colpiti da questa mutazione siano soggetti allo sviluppo di disturbi dell’umore e alla depressione.
ALZHEIMER E FAMIGLIE, LA TESTIMONIANZA DAL POLICLINICO DI MILANO
E qui s’inserisce inevitabilmente e con prepotenza un altro aspetto tragico della malattia, quello legato alla scoperta dell’Alzheimer da parte della famiglia dell’ammalato. Prima ancora che i medici, sovente dell’arrivo dell’Alzheimer sono i familiari ad accorgersene. Ce lo ha raccontato Miriam, la cui madre, Flora, nel 2010 è stata inserita in un protocollo universitario del Policlinico di Milano, il cosiddetto centro Uva (Unità Valutativa Alzheimer). « All’epoca non esisteva un esame ematico specifico. Quando il Professor Elio Scarpini ha inserito mia madre nel protocollo universitario, mi hanno chiesto come avessi fatto ad accorgermi così presto della malattia ». Miriam descrive gli improvvisi e sempre più intensi sbalzi temporali nella mente di sua madre: « sono il primo campanello d’allarme. Le telefonavo per chiederle come stesse e lei mi domandava cosa avessi fatto il giorno prima; quando avrebbe dovuto saperlo già, dato che ci eravamo sentite la sera prima ». La seconda concausa all’ammalarsi di Flora, dopo la predisposizione genetica, ha radici prettamente sociali.
« Mia madre è stata una casalinga. Io e mio fratello abbiamo lasciato casa in età universitaria e mio padre era un uomo che pur andando in pensione ha continuato a coltivare interessi esterni. Così lei veniva lasciata spesso da sola in casa. Non perché mio padre fosse cattivo, anzi, le regalava viaggi e crociere da fare insieme. Ma questo intervento è stato tardivo. L’alienazione sociale di mia madre è avvenuta anche nello stesso condominio in cui i miei genitori vivevano, e fu devastante per lei ». Flora era una donna religiosa e che con piacere socializzava con le sue vicine di casa, anch’esse casalinghe. A loro chiedeva sovente d’informarla su quando si organizzavano tra di loro per andare a messa insieme. « Ma non la invitavano mai, lasciandola da sola, e per lei fu motivo di grande dolore ». L’alienazione sociale, per l’appunto. « È la prima debacle, porta d’ingresso di ogni singola forma di dissociazione mentale, e quindi di depressione ». E proprio in riferimento alla depressione, Miriam conferma il suo essere una concausa della malattia: « è normale, è l’effetto di questi comportamenti sociali che portano all’esclusione e non all’inclusione ». Fino al ritardo generale della diagnostica, che Miriam ha però scongiurato grazie ad un’attenta osservazione della madre e alla prontezza d’intervento: « Sono stata io a chiedere che a mia madre venisse sottoposta alla rachicentesi, prelievo del liquor madre che scorre nella spina dorsale grazie a cui è possibile individuare le cellule malate ». Questo primo esame diagnostico ha permesso una diagnosi molto precoce della malattia in Flora, che oggi « vive con me da quindici anni dalla diagnosi: un successo, considerando che l’aspettativa di vita dalla scoperta della malattia è di circa 8-10 anni ».